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Era stato appena assolto dall'accusa di filonazismo

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Roma, tra tanti titoli di gloria, può anche fregiarsi di esser stata allora una provvisoria ma non effimera capitale del wagnerismo mondiale. Quell'evento memorabile è ora accessibile a tutti in un cofanetto di dodici cd appena pubblicato dalla casa tedesca Gebhardt, con pregevole ricostruzione tecnologica. Stiamo parlando dell'«Anello del Nibelungo», comunemente detto «Tetralogia», diretto da Wilhelm Furtwängler, che l'aveva messo in scena con un cast molto simile alla Scala tre anni prima. L'edizione scaligera, trasmessa radiofonicamente in condizioni quasi pionieristiche, è rimasta giustamente famosa anche perché fu la prima tetralogia del dopoguerra, prima ancora del tempio di Bayreuth, che riaprì i battenti solo nel luglio 1951. Ma l'impresa, sia pure in forma concertante, ossia senza regia, luci e costumi, sembrava proibitiva per la nostra città, per una compagine priva di esperienza specifica e per il pubblico, che all'indomani della guerra aveva da pensare più ai ladri di biciclette e alla ricostruzione che a Sigfrido, valchirie e (è il caso di dirlo) compagnia cantante. Invece la scommessa fu vittoriosa da tutti i punti di vista. I complessi della Rai si sottoposero stoicamente alla teutonica maratona dando veramente il meglio, a conferma del detto di Toscanini per cui non esistono orchestre che suonano male, ma solo direttori che dirigono male: almeno su questo i due titani del podio, che nella vita e nell'arte si odiavano, potevano convenire. E la risposta del pubblico fu non solo entusiasta ma disciplinatissima. Un esempio per quella minoranza di tossitori e scaraccatori, meritevoli del soggiorno obbligato nel sanatorio della manniana Montagna incantata, che funestano la vita musicale romana, suscitando ancora di recente l'esasperazione di Claudio Abbado. Furtwängler non aveva ancora settant'anni ed era all'apice della sua grandezza d'interprete, compositore e filosofo della musica. Ma era un uomo spezzato da un lungo periodo di battaglie ed amarezze per le quali non aveva la fibra, né più le forze. Durante il Terzo Reich aveva difeso, quasi da solo e con rischi inauditi, l'onore della musica tedesca, salvando non solo le opere e il pane ma in più casi la vita di artisti e musicisti ebrei o perseguitati politici. Per tutto ringraziamento era stato "denazificato" dai vincitori e costretto per tre anni a mendicare un impiego. Fu l'Italia a restituirlo prima ancora della sua patria alla gloria musicale per cui era nato. La Scala, il Maggio musicale fiorentino, Roma, aggirando i divieti alleati (e poi si parla male dell'intraprendenza latina!) grazie alla liberalità di Antonio Ghiringhelli, Francesco Siciliani, Vittorio Gui, gli ridiedero un podio prima ancora di Berlino, Vienna, Salisburgo e, naturalmente, Bayreuth. Il maestro ne fu gratissimo. Le lettere ad amici e familiari confermano che l'Italia fu l'ultimo amore di un uomo che per la verità ne aveva avuti tanti, come dimostrato da infiniti pasticci sentimentali (e cinque o sei figli illegittimi da mantenere), su cui Hitler ebbe buon gioco per ricattarlo. Figlio a sua volta di un eminente archeologo, Furtwängler vedeva nell'Italia la culla del classicismo, proprio come Wagner. E contrariamente a un'immagine acquisita, Roma contò molto nella storia del wagnerismo italiano. Il grande Richard vi fu accolto nel novembre 1876 sotto l'egida di un suo discepolo tanto valente quanto sfortunato, il compositore Giovanni Sgambati, oggi noto quasi solo ai taxisti per una via dei Parioli. Nel 1883, settant'anni esatti prima di Furtwängler, il Richard Wagner-Theater, complesso itinerante di oltre centocinquanta cantanti e musicisti, vi portò in tournéé la prima rappresenta

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