Paolantoni ingenuo e furbo travolto dalla burocrazia
Dopo la trasposizione scenica de «Il birraio di Preston», si rinnova la collaborazione con il regista Giuseppe Dipasquale e con lo Stabile di Catania per il debutto nazionale de «La concessione del telefono», che inaugura martedì la stagione del Teatro Verga. L'adattamento firmato a quattro mani da Camilleri e da Giuseppe Dipasquale è già un libro pubblicato da Lombardi editori che tiene presente e asseconda la pluralità di codici della rappresentazione. «Un lavoro più azzardato del precedente» dichiara il creatore di Montalbano che vanta però un passato di tutto rispetto come regista e docente di teatro. «Ricordo ancora lo stato di grazia con cui ho concepito questa narrazione e la considero una delle mie più riuscite. Non è un caso quindi che trovi una seconda vita sul palcoscenico. Penso da sempre che la messinscena permetta l'inizio di un nuovo itinerario per il testo, sempre diverso, imprevedibile e comunque disperatamente esaltante. Il confine del teatro è per me come l'orizzonte dei viaggiatori nei mari d'Oceano: eternamente presente, mai raggiungibile. In questo caso mi ha subito convinto la scelta di Dipasquale di creare una scenografia di faldoni e cartelle che si trasformano in ambienti, offrendo un'alternativa adeguata al percorso virtuale garantito dalla lettura». Costumi che fanno scaturire i protagonisti dalla stessa carta da cui sono oppressi, una via musicale che segue l'umore e il ritmo interno delle azioni, un linguaggio attorale che si sostituisce alla letteratura sono gli ingredienti di una regia non sottomessa all'opera di partenza. Definito «una metafora del clima sospettoso della Sicilia» da Pippo Baudo, presidente dello stabile catanese, lo spettacolo punta su Francesco Paolantoni nei panni di Pippo Genuardi, qui ritratto come un meridionale trapiantato con una soluzione brechtiana che salvaguarda l'origine napoletana dell'attore. Emblema della furberia e dell'ingenuità, oltre che vittima e strumento della burocrazia dell'epoca del trasformismo, il comune cittadino che resta intrappolato dalla richiesta di una linea telefonica a uso privato diventa allora l'espressione di un sistema. «Lusingato di lavorare con tanti mostri sacri - ha confessato Paolantoni - incarno un uomo mediocre che si ritrova preda del potere politico, della delinquenza e della stupidità umana». A Tuccio Musumeci spetta invece il ruolo di Don Lollò, un mafioso sui generis fuori da ogni orizzonte d'attesa, mentre Pippo Pattavina deve confrontarsi addirittura con sette piccoli personaggi diversi con cambi di costume che richiedono corse funamboliche e un autentico fregolismo interpretativo capace di garantire le differenti caratterizzazioni. «Non è la prima volta che mi cimento con tante parti nello stesso allestimento e il mio obiettivo è non permettere al pubblico di capire che sono sempre io» ha precisato l'interprete siciliano.