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La guerra, vergogna del Novecento

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Sotto la bacchetta di Pappano, l'opera che denuncia la tragedia di un secolo

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Un secolo passato alla Storia per due immani conflitti bellici e per una sequela d'obbrobriosità responsabili d'aver lordato quella dignità dell'uomo a dura fatica conquistata lungo i secoli antecedenti. Guerre ed obbrobrî che hanno disvelato agli uomini stessi la loro inalienabile inciviltà. Un secolo che c'ha urlato quanto sia a volte magnanima e misericorde Madonna Morte, che s'affretta a salvare il mondo dalla malapianta umana: vale a dire da quella degenerazione dell'essere ch'è l'uomo e che costituisce cosí di frequente la nota stridente e fetente dell'universo intiero. Il «War Requiem op.66» (1961) di Benjamin Britten, a solenne inaugurazione della stagione sinfonica di Santa Cecilia al Parco della Musica, vale uno spietato atto d'accusa contro l'animalesca foia bellica da cui sono divorati ab origine i bipedi: presso i quali stringono turpi patti l'ignominia dell'aguzzino e la vergogna della carne da macello. La specificità esteriore dell'oratorio britteniano si determina nell'affiancarsi ed intersecarsi del testo liturgico latino della «Missa pro defunctis» a nove testi poetici inglesi di Wilfred Owen, vittima 24enne della prima guerra mondiale. Per un verso il rito funebre, per altro la coscienza soggettiva ed impotente delo sterminio bellico. Il primo, celebrativo e clangoroso nei toni «ufficiali», è dall'autore connesso ad un doppio coro, ad un soprano e alla grande orchestra. La seconda, dall'eco piú intima, straniata e selenica - raccolti gli accenti in una sorta di crepuscolare «pietas» - è affidata al tenore, al baritono e ad un ensemble strumentale. Opera non di rado inattraente e d'ineguale valore. Nella sostanza e nella forma, opera ossuta e nevrastenica, dai barbagli di larva. Ora, inchina a tonitruanti ed atri affreschi di massa, in sospetto di superficialità scenografica; ora, rinvoltolata in sospiri di feroci rammarichi e in ansiti di dolcezze luttuose. E s'impiega all'uopo dal compositore un parametro melodico-armonico che diremo "lineare", ossia inteso a soluzioni moderate: né d'altronde era nel Dna linguistico di Britten l'invenzione prodigiosa: l'ardito colpo d'ala: piuttosto non veniva mai meno al di lui fare una rassicurante perizia artigianale. Se qua e là aleggia sui ritmi la lezione stravinskijana, qua e là monta tra i neri tralci di note della partitura l'ombra gelatinosa e spessa d'uno Shostakovich ravvolto nella sua buia mantella di liquirizia. Dedito a non risparmiare magniloquenza fonica alle pagine piú rettoriche e paludate, il maestro Antonio Pappano ha diretto il «Requiem» con plausibile diligenza, favorito dallo zelo dell'Orchestra e del Coro ceciliani, dal Coro di voci bianche di Roma ed in specie dai tre solisti vocali affatto eccellenti (la signora Christine Brewer, soprano; Ian Bostridge tenore; e Thomas Hampson, baritono): per vero, i meglio di tutti. Al termine del concerto che ha avuto luogo venerdí sera gli applausi ci sono parsi d'una natura piú riflessiva e commossa che entusiasta, siccome era giusto che esigessero la materia ed il suono dell'evento.

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