L'Europa inquieta e incontentabile dalla pazzia all'unità
LA GRANDE ATTUALITÀ DI PAUL HAZARD
Correva il 1935 e si sviluppava, con crescente velocità e consapevolezza, a causa dell'affermazione del totalitarismo in Europa, quel dibattito sulla cultura della crisi e il declino della civiltà avviato da Spengler, col «Tramonto dell'Occidente» (1918), all'indomani della conclusione del primo conflitto mondiale e destinato a protrarsi sino a oltre la fine della seconda guerra, almeno sino alla pubblicazione di Civiltà al paragone (1948) di Arnold Toynbee. Hitler era salito al potere da un paio di anni e, in quello stesso 1935, un grande studioso olandese, Johann Huizinga (1872-1945), ineguagliato cantore de «L'autunno del Medioevo» (1919), diede alle stampe «La crisi della civiltà», laddove lo storico - "profeta" del passato - si trasfigurava in un preoccupato interprete del futuro dell'Europa e lanciava un appassionato e drammatico grido d'allarme sulle "ombre del domani". Huizinga era ancorato a un'idea della civiltà europea strettamente connessa all'eredità della cultura germanica (austriaca e tedesca), svizzera e olandese - quella per così dire "renana" delle piccole municipalità, che si governavano attraverso le forme della democrazia consensuale e si reggevano sul primato dei commerci e della civiltà mercantile - ed era convinto che ormai il Vecchio Continente fosse davvero "ossessionato" e presto questa "demenza" sarebbe potuta sfociare in una crisi "di pazzia furiosa". Scriveva l'umanista olandese: «Se si vuole che questa civiltà si salvi, che non decada a secoli di barbarie, ma anzi, salvando i supremi valori che sono il suo retaggio, trovi la via per giungere a nuova saldezza, è necessario che gli uomini d'oggi si rendano esatto conto di quanto sia già progredita la dissoluzione che li minaccia». Proprio la profonda consapevolezza del declino dell'Europa di fronte all'involuzione totalitaria indusse Paul Hazard a volgere gli occhi all'indietro e a studiare a fondo il passaggio d'epoca tra la cultura del Barocco e il secolo dei Lumi, individuando in un ciclo temporale di trentacinque anni - tra il 1680 e il 1715 - gli indicatori della svolta decisiva. Vale la pena di ricordarlo il suggestivo incipit della «Crisi della coscienza europea»: «Quale contrasto! E quale brusco passaggio! La gerarchia, la disciplina, l'ordine che l'autorità s'incarica di assicurare, i dogmi che regolano fermamente la vita: ecco quel che amavano gli uomini del XVII secolo. Le costrizioni, l'autorità i dogmi: ecco quel che detestano gli uomini del XVIII secolo, loro successori immediati. I primi sono cristiani, e gli altri anticristiani; i primi credono nel diritto divino, e gli altri nel diritto naturale; i primi vivono a loro agio in una società divisa in classi ineguali, i secondi non sognano che eguaglianza». Prima della fine del Seicento i francesi - e, per estensione, gli europei - la pensavano come Bossuet, custode dell'ortodossia religiosa e sostenitore dell'assolutismo monarchico. Nel breve volgere di pochi decenni, incominciano a pensarla come Voltaire, padre dei Lumi, principe dei philosophes e protagonista del movimento riformatore. Fu un'autentica "rivoluzione", commenta Hazard. Certo, una rivoluzione pacifica, deliberatamente collocata nel terreno della mentalità collettiva, ma non per questo meno innocua; una profonda trasformazione culturale, una sorta di trapasso da un ordine politico fondato sull'obbligazione e sul dovere di obbedienza all'autorità sovrana, incardinata sull'alleanza fra il trono e l'altare, e dunque nei confronti di Dio e del principe, a una civiltà basata sui diritti e sulle libertà, teorizzati dal pensiero giusnaturalista, e sulle incontrovertibili certezze proposte dalla rivoluzione scientifica e dal razionalismo. Tale svolta - scandita dalle opere dell'inglese John Locke e del franc