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di ALESSANDRO MASI * NEL 1987, nella prima introduzione alla linguistica italiana scritta in tedesco, ...

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Ma si sbagliavano, di lì a poco le loro affermazioni avrebbero perso consistenza in quanto la produzione grammaticografica prese a crescere in maniera sorprendente a partire dal 1988 con la pubblicazione della «Grammatica italiana» di Luca Serianni e contemporaneamente con l'uscita del primo dei tre volumi della «Grande grammatica italiana di consultazione» di Renzi, Salvi e Cardinaletti. Opere, queste, che spinsero Harro Stammerjohann, altro grande studioso tedesco, a scrivere che grazie ad esse la lingua italiana poteva considerarsi la meglio descritta al mondo. Poi ancora, una dietro l'altra, uscirono: la «Grammatica essenziale di riferimento della lingua italiana» di Giampaolo Salvi e Laura Vanelli (1992), «La nuova grammatica della lingua italiana» di Maurizio Dardano e Pietro Trifone (1997) e poi ancora nel 2000 l'eccellente «Grammatica italiana di base», ancora di Trifone e dell'ottimo Massimo Palermo, che ha per destinatari gli studenti stranieri. Tanto basta per dire che il vuoto è colmato e che la pubblicazione di nuove grammatiche è servita per far uscire dal nobile isolamento la nostra lingua? Si e no. Nonostante tutti gli sforzi compiuti, il dubbio rimane e rode come un tarlo tutti quelli che hanno a cuore le sorti della nostra lingua. Uno di questi è Giuseppe Patota, storico della lingua italiana all'Università degli Studi di Siena-Arezzo, curatore del nuovo Dizionario Garzanti e lui stesso autore nel 2003 della «Grammatica di riferimento della lingua italiana per stranieri», testo molto utile e diffuso nelle scuole di italiano all'estero, presentata ufficialmente al Presidente della Repubblica in occasione della consegna dei Certificati Plida della Società Dante Alighieri. Patota in un articolo apparso su «Daf werkstatt», la rivista semestrale del Laboratorio di Didattica del Tedesco (Università di Siena-Arezzo, n.5 del 2005), riapre la questione con una serie di dubbi sulla fortuna recente e passata dei grammatici italiani, puntando l'indice contro la storia, ma fornendo anche utili riflessioni per il futuro. Dunque, come mai la grammaticografia italiana del Novecento ha accumulato un ritardo così consistente rispetto ad altre, e come mai, ha recuperato e superato gli ostacoli di un tale ritardo in un lasso di tempo così limitato? Una spiegazione forse c'è e le ragioni vanno individuate innanzitutto nell'embargo che l'idealismo di Benedetto Croce decretò nei confronti di linguistica e grammatica: la prima avrebbe dovuto dissolversi nell'estetica, e la seconda sarebbe sopravvissuta come strumento empirico, utile forse all'apprendimento ma non certo alla conoscenza della lingua, perpetua e insondabile creazione individuale. Di conseguenza, il tempo a disposizione per lo studio e la riflessione sui modelli teorici importati dall'Europa o dagli Stati Uniti fu veramente ridotto per dirsi anche utile. Ed infine una terza ed ultima ragione spiega contemporaneamente sia il ritardo che il recupero miracoloso operato dai nostri studiosi e va ricercata nella stessa storia, nella fisionomia e nella fortuna secondonovecentesca della lingua italiana, "particolarissimo oggetto". Ma se di questo ritardo se ne comprendono oggi finalmente tutte le ragioni, più difficile rimane spiegarsi come mai sia esplosa così improvvisa quanto prolifica la produzione grammaticografica da rimetterci in pari dai nostri ritardi storici in così breve tempo? Ancora un dubbio, ma questa volta solo di chi scrive, in quanto non proprio del tutto convinto che le chiavi del segreto di tanto successo siano da ricercare solo nell'abbandono dei dialetti a favore della lingua nazionale o sugli usi statisticamente rilevanti della comunità dei parlanti in lingua italiana soprattutto dopo che questi hanno allargato i loro orizzonti con l'apertura delle università di massa. L'aprirsi dei mercati mondiali all'impero linguis

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