Giulia Bongiorno, avvocato del senatore, racconta in un libro 10 anni di processi
L'angelo custode di Andreotti
Era naturale attendersi la pubblicazione di un libro sull'intera vicenda dei due processi (non solo Perugia, ma anche Palermo, dove l'ex presidente del Consiglio era stato imputato per associazione di stampo mafioso): un'odissea durata dieci anni. Andreotti l'aveva anche promesso: «Ne verrà fuori un bel libro. Molto divertente», aveva detto all'indomani della sentenza della Cassazione, non smentendo neppure allora il suo tradizionale senso dell'umorismo. E - invece - a raccontare questa vicenda inquietante e mostruosa è stata un'altra persona: Giulia Bongiorno («Nient'altro che la verità», Rizzoli, 16,50 euro). Giulia - che quando entrò nel collegio di difesa aveva appena 29 anni, ed era un procuratore legale nello studio Sbacchi di Palermo - non è stata un semplice avvocato: è stata l'angelo custode di Andreotti. Ha studiato milioni di fogli, ha partecipato a centinaia di udienze (fra Palermo e Perugina) e si è dedicata in esclusiva ai due procedimenti, conquistandosi la piena fiducia del suo assistito e del titolare della difesa, l'avvocato Franco Coppi, principe indiscusso del foro. Con tutto il materiale che aveva a disposizione, poteva uscirne un legal thriller (del genere di Presunto innocente, il capolavoro di Scott Turow, che aprì un filone nella narrativa americana), oppure un pamphlet devastante su certi meccanismi della giustizia italiana, o - ancora - un volumone documentatissimo (e magari noioso), infarcito di citazioni processuali (alla Travaglio, per intenderci). Oppure poteva essere tentata di parafrasare «Il processo» di Kafka, con quell'incipit devastante e abbastanza pertinente, in questo caso: «Qualcuno doveva aver calunniato Joseph K. Poiché senza che avesse fatto alcunché di male una mattina venne arrestato». Niente di tutto questo. Giulia Bongiorno ha scelto una strada molto personale per raccontare questa vicenda: per descrivere Andreotti imputato, e per confessare se stessa e il proprio coinvolgimento totale: dalla curiosità iniziale, alla sorpresa e alla gioia di vedersi affidare un ruolo da protagonista, e non da comprimaria, alla gioia esplosiva dopo l'assoluzione di Palermo, e al dolore e all'angoscia dopo la condanna di Perugia. Un racconto autentico e molto intrigante nella sua assoluta sincerità. «Tutto il mio mondo - racconta - in quegli anni era racchiuso nei processi Andreotti». Non aveva né tempo né testa per occuparsi di altro. «In quegli anni non ho comprato un solo capo d'abbigliamento, né un libro, né qualsiasi altro oggetto. Avevo persino smesso di leggere i quotidiani: scorrevo rapidamente i titoli solo per verificare se vi fosse qualche notizia relativa ai processi. Non guardavo nemmeno la televisione e non avevo idea di cosa stesse succedendo nel mondo». Ripete questi stessi concetti - con candore e con sollievo - tentando di spiegare perché ha scritto questo libro. È seduta, nella sala riunioni del suo studio, con le spalle alla finestra: lì dietro di lei c'è piazza San Lorenzo in Lucina. E questo dettaglio toponomastico spiega tutto, meglio ancora delle parole. Nella stessa piazza, in un altro edificio c'è anche lo studio di Giulio Andreotti, non più imputato (o, peggio, condannato), senatore a vita a tempo pieno. Una condizione ufficiale, ormai, ma che lui (il coprotagonista di questa storia) non ha mai messo in dubbio. All'inizio dell'odissea - racconta lei, l'altra protagonista - lo rimproverava perché non dedicava neanche un briciolo del suo tempo agli atti processuali, e continuava ad andare in giro con una «carpetta» colma di carte del Senato. «La verità era che lui si sentiva senatore e non imputato. Era senatore e faceva il senatore: non aveva alcuna voglia di fare l'imputato». E aggiunge: «Si è sempre comportato come se gli fossero stati scaraventati addosso undici anni di infe