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Le pagine sparite di «Petrolio»

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La verità sul delitto forse nel manoscritto, in parte disperso, del romanzo postumo

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Ce ne sarà da discutere, considerando la complessità del personaggio. Che fu una voce isolata - ma sovrastante - nella cultura italiana degli scorsi decenni. Un intellettuale libero, e quindi eretico. «L'eresia di Pasolini» è il titolo di un saggio (ma l'autore preferisce catalogarlo sotto la specie della narrativa) scritto da Gianni D'Elia (Effigie edizioni, 17 euro), che ha già scatenato polemiche roventi per il contenuto di un capitolo (intitolato «Il nome del petrolio», che rifà il verso a «Il nome della rosa» di Umberto Eco). D'Elia rilegge alcune pagine del romanzo postumo (e largamente incompiuto) al quale Pasolini si dedicò a partire dal 1972, pubblicato vent'anni più tardi, intitolato - appunto - «Petrolio». In quelle pagine (e in altre che sono misteriosamente scomparse), lo scrittore giungeva a una conclusione eretica e scandalosa: che l'incidente in cui perse la vita (il 27 ottobre 1962) Enrico Mattei fu causato da un sabotaggio, e che il mandante dell'omicidio fosse il successore di Mattei alla presidenza dell'Eni, Eugenio Cefis. Un'ipotesi, questa, presa in considerazione dal giudice che ha indagato recentemente sul caso Mattei, Vincenzo Calia, che - nella sentenza di archiviazione del 2003 - ha scritto che «le carte di "Petrolio" appaiono come fonti credibili di una storia vera del potere economico-politico e dei suoi legami con le varie fasi dello stragismo italiano fascista e di Stato». Negli ultimi anni di vita, Pasolini si era dedicato anima e corpo alla rilettura della storia recente del nostro Paese, frugando nei misteri, cercando risposte. Trovandone parecchie, forse. Il dubitativo dipende dal fatto che - dopo la sua morte - nella sua casa furono ritrovate 400 cartelle del manoscritto di «Petrolio», mentre da notizie fornite dallo stesso scrittore, nella stesura del suo romanzo, le cartelle erano già 600. «Contro l'incoscienza del potere globale, lo scandalo della coscienza è ancora il fascino di Pasolini - osserva D'Elia - che ha portato per sempre la poesia italiana fuori le secche dell'estetico, verso il noetico e la sua utopica disperazione, sotto forma di romanzo esploso, di consuntivo finale di una cultura e di una nazione piccolo-borghesi, in un Occidente dominato da mostri non umani, da spettri della finanza e dei teleschermi, a cui l'ultimo poeta eretico e senza cittadinanza si è opposto con tutte le sue forze, fino a pagarla con la vita». Detto chiaro e tondo: Pasolini non fu ucciso da un balordo, e non fu vittima della sua dichiarata omosessualità. Fu vittima di un complotto, orchestrato da chi aveva interesse a farlo tacere. Pochi mesi fa, Pino Pelosi, il ragazzo che aveva confessato il crimine (e che fu condannato per questo), ha ritrattato, sostenendo che quell'omicidio fu un atto premeditato e politico, compiuto da più sicari. Se andò davvero così, a scrivere il proprio destino fu la stessa vittima che - esattamente un anno prima della morte, il 14 novembre 1974 - scrisse un articolo sul Corriere della Sera che provocò grandissimo scalpore. «Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (e che in realtà è una serie di golpes istituitasi a sistema di protezione del potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974». E così via, in un elenco lungo e terribile. Per giungere a una conclusione che (probabilmente) fece tirare un sospiro di sollievo ai responsabili di tante atrocità che temevano di essere già nel mirino della giustizia: «Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, d'immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti an

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