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Tognazzi, il Lucifero della risata

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Lo avevo intitolato, appunto, «La commedia all'italiana» e vi avevo fatto partecipare Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi e Nino Manfredi. Un vero spasso per il pubblico che assisteva, ma uno spasso anche per quei quattro che, sul palcoscenico del Palazzo dei Congressi, si scambiavano ricordi, battute, ora polemizzando tra loro, ora, invece, come spesso avevano fatto nei loro film più celebrati, facendosi reciprocamente da «spalla». Curiosamente, proprio verso la fine (era già sera tardi), Tognazzi si addormentò e, svegliato bruscamente da Gassman, riconobbe: «Forse abbiamo già fatto ridere abbastanza, adesso, ammettiamolo, stiamo diventando soporiferi». Naturalmente nessuno di noi prese per buona la spiegazione e la moglie Franca Bettoja, che assisteva all'esibizione in platea, mi sembrò piuttosto turbata. Mi disse a bassa voce: «Ugo da qualche tempo non sta bene, lo nasconde così, buttando tutto in burletta, ma io ho già sentito dei medici e non è proprio uno scherzo». Me ne preoccupai anch'io e infatti qualche tempo dopo non fu una sorpresa la notizia che l'avevamo perduto. Ai funerali, esattamente quindici anni fa, mi recai con molta malinconia. Che però, onestamente, sentii, se non alleviata, quasi mutata di natura dal ricordo amabile dell'allegria così calda che Tognazzi mi aveva elargito in tutti gli anni della nostra lunga amicizia, sia nel privato, sia da quegli schermi dove io, da critico, annotavo puntualmente i suoi tanti, indiscutibili successi. Divertito di vederlo scherzare in ogni occasione, persino al battesimo di suo figlio, nato dal suo matrimonio con Franca Bettoja. Ero andato spesso a Velletri, dove avevano una villa, nel periodo in cui Franca era in stato interessante e Ugo, per festeggiare la circostanza, offriva a tutti noi quei pranzi pantagruelici per i quali era giustamente famoso e che cucinava di persona sostenendo di essere molto più bravo come cuoco che non come attore. In occasione di uno di quei pranzi, Franca, cui mi legavano e mi legano tuttora anni di affettuosa amicizia, precedenti anche al suo rapporto con Ugo, mi propose di tenere a battesimo il figlio che stava aspettando. Accettai naturalmente con gioia e quando arrivò il momento mi trovai serio e computo al luogo dell'appuntamento che era la chiesa di San Giovanni dei Fiorentini, nella zona di piazza dell'Oro dove allora Ugo, quando era a Roma, abitava. All'improvviso, di fronte a me, si parò Marco Ferreri, con il quale in seguito avrei avuto ottimi rapporti mentre a quell'epoca i suoi film, di gusto spesso solo aggressivo, non mi convincevano fino in fondo. Cercai così di tenermi un po' sulle mie, pur dimostrando quella cordialità che è comunque educato avere in chiesa nei confronti della gente che ci è vicina. Restai però di sasso quando, dal celebrante, sentii battezzare il bambino Gianmarco, ascoltando poco dopo Ugo che, con un riso addirittura sulfureo, mi disse: «Hai visto? Adesso, grazie a mio figlio, sono riuscito a mettere insieme te e Ferreri, Gian Luigi e Marco. Guai, d'ora in poi, se non restate uniti: sarebbe il piccolo Gianmarco ad andarci di mezzo». Una piccola beffa, che non cancellava però quella bonarietà settentrionale che era stata alla base, molti anni prima, dei nostri rapporti via via sempre più amichevoli. L'avevo seguito dagli esordi nel cinema, dopo i successi nel varietà e poi anche in teatro. L'avevo visto assumere a poco a poco una faccia che, intenzionalmente, non corrispondeva mai ad un tipo, perché poteva essere varia, multiforme, mutevole a seconda degli autori con cui si cimentava e a seconda delle cronache che gli si svolgevano attorno. Ora seguendo le mode, specie quelle della commedia, ora contrastandole con furbizia e intelligenza, ponendosi (specie quando sarebbe diventato anche regista) su posizioni spesso controcorrente. C

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