SUCCESSO ALL'ESORDIO DI ANCONA
Così Jovanotti ha introdotto «Coraggio», la canzone con cui sabato ha chiuso il concerto di Ancona, tappa inaugurale del suo nuovo tour, 22 date fino al 3 dicembre (a Roma il 10 novembre, al Palalottomatica). Poche parole, che sintetizzano alla perfezione il significato del suo nuovo spettacolo e che confermano la sua innegabile capacità di sentire la direzione del vento e di spiattellarla agli adepti attraverso la musica. «Il ritmo è una componente fondamentale della comunicazione e della vita», confessa il ragazzo subito dopo lo show. Che è straordinariamente bello e molto rock, come direbbe Celentano («purtroppo non l'ho visto, ma lui mi piace, è il più grande interprete della canzone popolare italiana»). Se gli spettacoli precedenti erano uno l'evoluzione dell'altro, e tutti legati dal filo rosso dell'incontinenza energetica, con il «Buon Sangue tour» Jovanotti ridisegna il suo profilo live alzando il livello della difficoltà, come nei videogiochi. E se in passato era impossibile trovargli una catalogazione precisa (rap? pop? funky? parolaio? paroliere?) adesso i dubbi sono stati fugati: è un rocker a tutto tondo. Vedere per credere. A luci spente parte un giochetto, frasi topiche di film famosi, vince chi ne indovina di più: Blade Runner, Full Metal Jacket, Amarcord, La Febbre del Sabato Sera. Poi, primo colpo di genio, l'entrata a luci accese fendendo la platea con le felpe sulla testa, come i pugili. È un ko, ancor prima che la gente se ne renda conto Jovanotti è già sul palco con la sua band (e che band! Il nuovo batterista, Mylious Johnson, newyorkese del South Bronx, un tipo da «Guerrieri della notte», «è il miglior batterista del mondo under 30»). Per 15 minuti i ragazzi si scaldano con un medley di vecchi brani, una sorta di warm-up. A questo punto Jovanotti spegne l'interruttore e parte un altro diretto: Tanto, il devastante tormentone estivo, nell'arrangiamento live diventa nitroglicerina pura. Palco nudo, semplicissimo, suono perfetto, la band è rinchiusa in una specie di isola, alle sue spalle un futuribile megaschermo sul quale passa di tutto, Wojtyla, il fungo nucleare, la croce cristiana, la stella di David, la mezzaluna, vecchi film, solo input per riflettere. Niente provocazioni. «In questo show vorrei andare oltre la protesta politica, che oggi più che mai potrebbe sembrare ruffiana», confessa ancora Lorenzo autobacchettandosi per la sua inguaribile logorrea predicatoria. Il concerto lievita pian piano come una pizza, prende corpo e contorni, si gonfia, si colora, comincia a profumare. Scorrono Una Tribù Che Balla, Salvami, L'Ombelico Del Mondo, con il solito boato d'accoglienza. E l'Africa, che in passato tracimava da ogni nota, dov'è finita? Ecco la spiegazione: «La musica etnica non deve essere l'elemento esotico che colora lo spettacolo. La black music non è un orpello, è diventata l'elemento portante». L'energia, quella adrenalinica dei bei tempi, viene compressa in favore delle ballate, che occupano la parte centrale del set. Jovanotti per la prima volta suona la chitarra dal vivo, alcuni problemi tecnici gli inficiano quella che è la parte più emozionante del concerto («mi sono sentito perso»). La Linea d'Ombra, Mi Fido Di Te («era una canzone che cercavo da tanto») Piove, Io Ti Cercherò, Gente Di Notte, Serenata Rap, Bella, complice anche un girasole lanciato dagli spalti, diventano frammenti di poesia amorosa, mentre Gassman, in sottofondo, declama «amor, ch' a nullo amato amar perdona». In fondo, un concerto d'amore. Però rock.