Il cellulare e la vita «senza fili»
Al telefonino, questo strumento che ha cambiato il nostro modo di rapportarci con gli altri, e dunque la struttura stessa della nostra esistenza, Maurizio Ferraris ha di recente dedicato un saggio («Dove sei? Ontologia del telefonino», Bompiani, 294 pagine, 8.50 euro), che - come suggerisce il titolo - si propone di spiegare in cosa consista la specificità di questo sistema di comunicazione popolarissimo in Italia: 96 cellulari ogni cento abitanti, secondo gli ultimi dati Eurostat. Ma a che serve un telefonino? La domanda presupporrebbe un'ovvia e inconfutabile risposta: «a telefonare». Ebbene: sarebbe una risposta incompleta e soprattutto incapace di cogliere la qualità del nostro comunicare: come si legge nell'ultimo rapporto del Censis «l'impressione è che molti non si rendono neanche conto di quello che potrebbero fare con il proprio apparecchio». Infatti il cellulare non è solo un dispositivo che ci consente di parlare a distanza indipendentemente dal luogo ove ci troviamo anche se, fuor di dubbio, con questo scopo è stato inventato. Sta di fatto che, come spesso accade, il destino delle invenzioni sfugge agli scopi previsti dall'inventori: è già successo per la radio, pensata da Marconi come uno strumento di comunicazione fra due persone (ciò che invece diverrà il telefono), ed è già successo anche per il telefono, progettato da Bell per trasmettere lo stesso segnale a più ascoltatori (ciò che invece farà la radio). Se dunque il telefonino nasce allo scopo di "sganciare" gli interlocutori dalla dipendenza del filo, non per questo l'ubiquità garantita all'atto comunicativo è necessariamente la sua caratteristica fondamentale. Infatti - secondo Ferraris - il cellulare è soprattutto una "macchina per scrivere". Si badi, non si tratta unicamente della possibilità di inviare Sms (anche questi utilizzati da tutti noi in modo imprevisto rispetto a quanto pensato dagli inventori che li idearono come un sistema per inviare informazioni di controllo: informare l'utente del suo traffico residuo, per esempio), ma della constatazione che ogni forma di comunicazione gestita tramite la telefonia cellulare è riducibile - in essenza - a una "scrittura", come del resto avviene per ogni strumento digitale che processa lunghe file di bit: sono poi le interfacce che provvedono a mostrarceli sotto forma di lettere, immagini o suoni. Di conseguenza il telefonino, utilizzato per parlare, per inviare e ricevere messaggi, per effettuare pagamenti, per leggere le e-mail o per navigare in Web, diventa il terminale che registra ogni passaggio della nostra vita, una vita che può essere ricostruita decodificando le tracce che lasciamo sull'apparecchio, proprio come aveva previsto qualche anno fa Wim Wenders in «Fino alla fine del mondo». E, volendo allargare il discorso dal singolo alla società, essa stessa tende ad essere sempre di più fondata su una documentazione che viene veicolata in formato elettronico: peraltro anche la legislazione italiana, con il nuovo Codice dell'Amministrazione Digitale, riconosce in pieno il valore probatorio del documento digitale. Vedere il telefonino come una macchina per scrivere porta Ferraris - sulla scorta di Derrida - a evidenziare, rispetto alla comunicazione della scrittura, il ruolo fondamentale di registrazione della medesima «in quella tabula che è la sim card, e poi nelle memorie sempre più potenti, sempre più capienti, di cui si stanno dotando i telefonini nella marcia verso il computer» (p. 121). Chiuso il volume del filosofo, viene da chiedersi come evolva questa società che fonda sempre più la sua stessa esistenza su tracce sociali fatte di bit. Bit impalpabili (ma che necessitano comunque di un supporto materiale su cui venire scritti) che si possono produrre, immagazzinare e spedire in grande quantità. Perché se è vero che mai come nella nostra era contemporanea si è scritto tanto, di converso non è certo senza consegue