Genio solitario
fra le ombre del XX secolo
Era nato in Oneglia nel 1925 da una famiglia di tradizioni musicali, iniziati gli studî col padre Ernesto, proseguiti in Milano al Conservatorio «Verdi» con Paribeni e Ghedini per la composizione, col grande Giulini e Votto per la direzione d'orchestra. Il perfezionamento negli Stati Uniti d'America sotto la guida di Dallapiccola, agguerrito professionista di dodecafonia, avviandosi la sua sensibilità ed il suo linguaggio verso orizzonti di cifra affatto sperimentale: sulla scia della musica radicale della prima metà del secolo ventesimo. Nel 1954 fondava coll'amico Bruno Maderna, campione anch'egli d'iconoclastie sonore, lo storico «Studio di Fonología» della Rai di Milano: antro d'ebrietà dissacratorie, ignorate dalle «larghe masse» dei musicofili non aggiornati (ed anche magari un po' reazionarî) ma sollucheranti gli adepti all'esplorazione d'una scrittura vieppiú razionalista e strutturalista. Erano gli anni, era il clima ideologico, era il tempo d'un'estetica onde comporre in do maggiore, o trascorrere dalla sensibile alla tonica, od accennare appena ad una melodia tonale equivaleva a bestemmiare contro la sacertà dell'arte, prostituirsi al gusto marcio della plebaglia, far strangolare la propria coscienza etico-estetica dal piú turpe dei compromessi. Era l'epoca che compositori come Menotti e Mannino, a tacer d'assai altri, costituivano i simboli esecrandi del pattume sonoro, rei di farsi comprendere, se non amare (non s'esageri), dai parrucconi. Era l'epoca che glorificava i Corsi di Darmstadt; ch'esigeva l'impegno politico (a sinistra) dei musicisti; che giudicava gli applausi d'una platea borghese il peggio affronto che si potesse fare al compositore rinserrato nella sua torre d'avorio da cui distillava le verità di poesia ai cachettici suoi apostoli. Era l'epoca in cui, in verità, la musica politicamente corretta si tramutava sovente in intollerabile molestia sonora: in raspose pillole letalissime: piú dell'aviaria, dimane. A petto di costoro, il Berio è stato, per dir cosí, un «moderato»: un Castagnetti a petto d'un Bertinotti. Ciò che l'ha sempre contraddistinto, e preservato da una spirale di schizofrenica coerenza sperimentalistica, è stata la fantasia. Una fantasia, la sua, che rampollava dalla vivacità dell'intelligenza e della curiosità, atte a contrapporsi all'esasperato e contorto intellettualismo dei suoi colleghi in pentagramma: quei colleghi - da Boulez a Stockhausen, da Cage a Nono: figli (legittimi o naturali) o nipoti ad Anton Webern - che hanno gettata la musica d'arte occidentale in uno stato di putrefazione, che tuttora - ahinoi, ahilei, ahituttiquanti - persiste. Nella sfera della fetente aura novecentesca, responsabile d'aver imbarbarito e imbastardito il linguaggio dei suoni, il Nostro è apparso quale un'ilare figura dal segno brioso e dal dinamico pensiero, a bastanza affrancata dai condizionamenti di scuola e riottosa alle etichettature: indispensabili alle mandrie dei mediocri. Alieno da pregiudizî estetici, il maestro ligure ha còlto il suo bene dove l'ha trovato: ora come ape suggendo da varî fiori; ora come mosca, sostando su materiali per certo meno squisiti. Colle sue audaci flâneries ed illuministiche arguzie, Berio sarebbe stato un compositore geniale se non avesse patita la iattura di campare in un secolo buio, piú «stupido» dell'Ottocento e piú feroce del basso medioevo, nemico come nessun altro all'arte, alla creazione, al «Bello» tout-court. Non dispiaccia accennare qui ai due capitali abbagli beriani. Il primo: credersi che il genere operistico fosse tuttavia vitale e, dunque, comporr