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L'Accademia premia il drammaturgo londinese apertamente schierato contro Bush e Blair

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Pinter, un Nobel al teatro militante

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Non casualmente abbiamo aperto con quella riflessione di Beckett perché il teatro di Pinter, londinese puro sangue della zona periferica di Hackney, si è mosso fin dagli esordi sul filo di un linguaggio allusivo e traslato che, per lui come per tanti altri nipotini di Franz Kafka e proprio dell'autore di «Finale di partita», Beckett appunto, rifletteva in termini totalizzanti la sottesa ambiguità della vita, il trauma dell'esistere nella marginale condizione dell'essere del tutto deprivato di ogni possibile rapporto con la realtà, con il vitale quotidiano. Pinter, fin dagli esordi sullo scenario della drammaturgia, è stato costretto a utilizzare — per rendere concretamente e compiutamente lo strappo e la lacerazione derivanti dall'assenza, dentro un universo di dilaganti presenze — il concetto dell'unità di tempo, luogo e azione all'interno della sequenza drammaturgica: è quanto gli accade al debutto, con l'atto unico «La stanza», nel 1957, anteprima di un'operazione di scavo nel profondo della pisiche umana già in atto dall'anno successivo, il 1958, con «Il compleanno», e poi «Il guardiano» (1960), «Il calapranzi» dello stesso anno, singolare e divertente traduzione italiana di «The Dumb Waiter», e ancora «Ritorno a casa» del 1965, un lavoro che potrebbe considerarsi come sintesi dolorosa dell'intero processo di scavo al fondo della notte, nel buio di quell'inconscio che il referente kafkiano, e poi beckettiano, gli offriva. Con rilevante autonomia e indipendenza dai due giganti ricordati, poiché alla Praga tutt'altro che magica dello scrittore inconfrontabile del «Processo», come pure alla fantasmatica città invisibile dove Godot si fa attendere invano, Pinter contrappone gli interni di un trauma esistenziale che rimbalza perpetuamente dall'una all'altra commedia citata, con un inesauribile gioco di specchi che deve inesorabilmente condurre a un "finale di partita" del tutto diverso, malgrado il comune punto di partenza. Fu probabilmente proprio questa appassionante, e passionale, esigenza espressiva a sospingerlo verso orizzonti più vasti di comunicazione: radio, televisione, cinema, con sequenze fortemente calate nella modernità dell'eloquio e delle situazioni, un magistero dal quale non credo debba sentirsi esente la demoniaca presenza di Jean Paul Sartre, con il duro confronto fra l'essere e il nulla, che proprio il padre dell'esistenzialismo aveva posto al centro della sua speculazione filosofica. In questa direzione, va sottolineata l'esemplarità, e al contempo la determinata finalità, in lavori che rimbalzavano dal teatro al piccolo schermo, e di lì al gioco filmico, così presente e decisiva in «La collezione» del 1961, «L'amante» del 1963, e in collaborazione con il regista Joseph Losey, «Il servo» del 1962, «L'incidente» del 1967, «Messaggero d'amore» del 1970, tutti testi in cui il tema dolente dell'incomunicabilità, trapunto di silenzi assurdi, di rinunce ad ogni sintomo di vitalità, si fa strada entro un fitto universo di equivoci e di malintesi, con riflessi e referenze che convalidano il legame tutt'altro che sottinteso o inavvertibile con tanto teatro e tanta letteratura di Francia, inevitabile punto d'incontro fra culture fondate sulla deprivazione dell'io, e sulla disperata ricerca di un remoto, impossibile ancoraggio. Tutta la nevrosi dell'uomo contemporaneo emerge a chiare lettere, proprio dall'indecifrabilità del reale, come pure della più totale assenza di bersagli fermi, condannati perpetuamente all'inafferrabilità della compiutezza. Sarà proprio il linguaggio corrente, quello del vitale quoti

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