Il nostro cinema sbarca negli Usa con Faenza, Muccino, Sorrentino
Più Django e tutti i giustizieri del West, naturalmente. Ma provate a chiedere a Franco Nero quale, tra i personaggi interpretati in 160 film, lo tormenti ancora, quando la notte si sveglia di soprassalto. «Gianni Versace, la scena del delitto. Quella pellicola, un classico instant-movie all'americana, in Italia non uscì mai, perché la sua famiglia si oppose. Ma io, nei panni dello stilista, quella pistola puntata in faccia me la rivedo ancora oggi. E mi angoscia». Nero, eroe trans-generazionale del grande schermo, è qui nella capitale USA per la quarta edizione di «Washington, Italia», la rassegna di cinema italiano curata da Pascal Vicedomini (con il contributo, tra gli altri, di Cinecittà Holding, Rai Trade, e dell'Istituto Capri nel Mondo), che quest'anno tributa un omaggio a Marcello Mastroianni e presenta al pubblico d'Oltreoceano il meglio della nostra cinematografia contemporanea, con le opere di Faenza, Muccino, D'Alatri, Sorrentino e un test importante per il «Private» di Saverio Costanzo nella corsa all'Oscar. Franco Nero è venuto a presentare il suo debutto nella regia: quel «Forever Blues» che qualcuno ha definito un «Million Dollar Baby» all'italiana, con il jazz al posto del ring. «Alla prima mondiale - spiega il 63enne attore - l'altro giorno a New York, ho avuto dieci minuti di applausi. Alcuni spettatori hanno visto nel film un messaggio di pace. Io dico solo che è una cosa realizzata con un piccolo budget ma con un grande cuore. È la storia dell'incontro iniziatico tra un non più giovane e scoglionato trombettista e un ragazzino autistico, Daniel Piamonti. Li troviamo tutti e due in una cittadina di provincia, gli unici posti dove è ancora possibile coltivare dei sogni. Infatti l'uomo insegnerà al ragazzo le vie per scoprire se stesso attraverso la musica. E l'altro gli restituirà speranza, e una più profonda adesione alla vita. Tutti e due insieme, forse, stanno cercando Dio. Come nella scena in cui salgono in cima a una collina». Jazz e blues, l'ossessione sotterranea di tanto cinema italiano. «Anch'io, a vent'anni, ho provato. Canticchiavo, compravo strumenti. Ero rimasto incantato da Montgomery Clift che suonava la tromba in "Da qui all'eternità", o da Richard Burton che lo faceva in "Giovani arrabbiati". E andavo in deliquio di fronte all'energia sonora di Louis Armstrong, o alla ricerca della nota perfetta da parte di Miles Davis. Ma non ho avuto il tempo per applicarmi come si deve: il set mi ha chiamato molto presto. Però in questo "Forever Blues" ho tentato il riscatto come trombettista... anche se qui e là ho avuto qualche piccolo aiuto segreto dai miei amici... Ma è vero, il jazz e il cinema sono sposati da sempre, come mi ricorda il mio amico Pupi Avati. O Lino Patruno, che mi ha aiutato a girare alcune scene. O Minnie Minoprio, che vedrete cantare: il grande pubblico l'ha persa di vista, la ricorda come una soubrette, ma in questi anni non ha mai smesso di fare concerti». Mentre sonda il terreno alla ricerca di una produzione che, dice, «non bruci in due giorni questo progetto», Nero ne ha già pensato un secondo, anche questo catarticamente legato ai destini in bilico di due esseri umani, così diversi tra loro ma solidali. «Si chiama "La vita potrebbe essere meravigliosa", è la storia di un cieco e di una bambina extracomunitaria, ho già il sì di Amii Stewart nel ruolo della madre. Chissà, le vicende che ho voglia di raccontare rivelano che non ho ancora tagliato il cordone ombelicale con la mia infanzia: del resto, quando ho tra le braccia i miei nipotini rivedo i miei figli, mi sembra di avere ancora trent'anni, come in un fermo-immagine del mio tempo». Come padre, Franco sente di aver soprattutto insegnato «con l'esempio, il valore della libertà». Laurence Olivier mi diceva sempre: «Vuoi avere successo? Fai un film all'anno e piegati alle regole dello star-system. Ma che vita monotona sarebbe... Mentre troppi fra i giovani di oggi paiono dei millantatori». Sarà forse per certi cattivi maestri: e, opp