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Il naïf della camera da presa

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per i suoi primi romanzi e poi per i suoi primi film. A questi, però, non si limitò a portare solo dei contributi linguistici perché Pasolini, che non aveva tardato a riconoscergli un talento indubbio («di affabulatore» diceva), se lo tenne poi al fianco, anche come aiuto regista, in tutti i suoi film a partire da «Accattone» per finire con «I racconti di Canterbury». Imitato in questo, almeno per quel che riguardava i dialoghi, anche da altri registi, persino da Fellini, che gli fece rivedere molte battute delle «Notti di Cabiria», poi da Bolognini, addirittura per due suoi film, «La notte brava» e «La giornata balorda», senza dimenticare Bernardo Bertolucci che, avendo tratto la sua «Commare secca» da un soggetto di Pasolini, non poteva non rivolgersi proprio a lui per una consulenza nell'ambito della sceneggiatura. Si era però arrivati ormai al '70. Citti dialoghista e sceneggiatore si sentiva in grado di andare oltre, di scrivere e poi anche dirigere un film dal principio alla fine tutto suo. E fu «Ostia», sceneggiato naturalmente anche con Pasolini, ma con il suo segno, il suo gusto. Catalogati subito nelle cifre di un naïf che, fino all'ultimo, sarebbe poi stata la caratteristica più autentica di tutto il suo cinema. Sia che affrontasse addirittura la Roma ottocentesca del Belli in «Storie scellerate», sia che, su una spiaggia in «Casotto», provasse anche i modi della commedia, con osservazione di un sottoproletariato che, pur rappresentato con occhio neorealista, sapeva poi voltare in burla i sapori anche più asprigni della cronaca. Il suo naïf, comunque, gli permetteva di esplorare anche la fiaba, almeno quella dei picari ed ecco così, in un certo senso inatteso, «Due pezzi di pane», addirittura con Vittorio Gassman e Philippe Noiret pronti a seguire, in scena e fuori, le indicazioni di qualcuno cui, convinti, guardavano ormai come ad un autore vero, pur avendone entrambi frequentati anche molti altri, e di vaglia, nel corso delle rispettive carriere. Come loro, l'anno dopo, si sarebbe comportato Roberto Benigni in quel «Minestrone» (sceneggiato da un suo futuro complice, Vincenzo Cerami) che si lasciò indurre a interpretare, convinto, come una sorta di sinfonia nera della fame. Metà surrealismo metà parabola. Con stile sicuro. Poi ancora cinque film (oltre a un'apparizione in tv con «Sogni e bisogni»): «Mortacci», «I magi randagi», «Esercizi di stile», «Vipera», quest'ultimo con Giancarlo Giannini, al centro, ancora una volta, di una favola nera. Sino all'ultimo «Fratella e sorello» con Claudio Amendola. Non hanno segnato passi avanti, ma non hanno nemmeno smentito un talento che di certo ha arricchito, in molti momenti, il nostro cinema.

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