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Un horror senza sangue per madre e figlia

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Reilly, Tim Roth, Pete Postlethwaite, Stati Uniti, 2005. di GIAN LUIGI RONDI UN horror senza sangue, ma non fantasmi. Si specchia in un altro di egual titolo, questa volta giapponese, diretto da quel Hideo Nakata, già seminatore di spaventi con i due «Ring». Lo ha trasposto in cornici americane lo scrittore Rafael Yglesias che aveva già adattato un suo proprio romanzo per lo schermo («Fearless - Senza paura»), regia di Peter Weir), riscrivendo anche, per Polanski, «La morte e la fanciulla» di Dorfmann. Anziché a Tokio, così, siamo nella Roosevelt Island dell'East River di New York e l'ambiente è quasi soltanto un lugubre edificio fatiscente in cui finisce, dopo un divorzio, una madre con la sua bambina, pur realizzando che attorno a lei c'è solo desolazione e sporcizia. C'è però anche dell'altro perché a un certo momento, mentre una pioggia continua rende anche più desolanti e grigie le atmosfere, la figlia comincia a vedere e a parlare con un'altra bambina che però non esiste. A questo si aggiunge una macchia sul soffitto con il sospetto che nell'appartamento di sopra ci sia una forte perdita d'acqua. Difatti c'è e, pur riparata, si ripresenta, questa volta con getti nerastri — l'acqua sporca del titolo — che rischiano di sommergere tutto. La rivelazione alla fine. Con echi tragici che riporteranno la donna a un suo trauma infantile cui, disperatamente coinvolta, finirà per soggiacere. Il film di Nakata, che da noi si è visto solo in televisione, puntava molto più sulle angosce sospese e su risvolti psicologici dipanati a poco a poco, facendo lievitare il terrore quasi insensibilmente. Rappresentando il testo di Yglesias, il regista brasiliano Walter Salles, noto sia per «Central do Brasil» sia, di recente, per «I diari della motocicletta», ha preferito allusioni minori e temi più espliciti (anche sul versante dei fantasmi: la bambina con cui parla la figlia della protagonista), ma se questo non ha favorito l'esteriorizzazione dei meandri dell'inconscio, gli ha consentito egualmente di metter su uno spettacolo in cui la paura, dilagando, riesce quasi sempre a dominare in modo convincente. Sia per quella cornice funerea, sia per le sorprese che svela poco per volta, sia per i ritmi torvi cui l'azione, travolgendo sempre di più, si affida. Al centro, lacerata e via via distrutta, Jennifer Connelly, premio Oscar per «The Beautiful Mind», ma anche con un passato horror («Phenomena» di Dario Argento). Fra i «cattivi» l'attore inglese Pete Postlethwaite, che era invece una vittima nel film di Sheridan «Nel nome «del padre».

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