Memorabile concerto con Martha Argerich all'Auditorium capitolino
dono d'Osiride secondo gli egizî; opera di Jubal, secondo gli ebrei; la grande musica contiene in sé, come nessun'altra arte, il potere di svelare e gridare l'anelito che infiamma gli uomini verso l'ultraterreno: verso ciò che dentro di noi si proietta all'esterno di noi: verso l'infinito, verso l'assoluto. Che poi quest'assoluto costituisca una realtà, anzi la realtà oggettiva, oppure solo una disperata costruzione interiore, è altro problema - forse irresolubile - che non è il cronista degno di svolgere. Resta il fatto che il linguaggio dei suoni, nell'espressione sua piú eminente ed adempiuta, è ponte prodigioso, magico, fra ciò che siamo, o crediamo d'essere, e ciò che aspiriamo ad essere. Grazie a quei suoni senza argini semantici - quei suoni che dunque vogliono dire insieme tutto e nulla: che si offrono a noi come amanti proclivi a tutto ed a nulla indocili - la musica ci riflette nobilitati, dilatati, impreveduti. Purtroppo la musica non vive in modo autonomo: ha bisogno dell'interprete per risorgere dal ghiribizzoso pentagramma ed inverare sé stessa: concreta effigia di poesia, epifanía vibrante di canto. E l'interprete può imparadisarla ovvero vituperarla, giusto il proprio talento, la propria intelligenza. La musica, in somma, pur cosí sublime nella forma ed interminata nei contenuti, sta sotto perenne ricatto.... Forse le conviene rischiare il vituperio, se l'alternativa è quella d'essere accolta, delle volte, da interpreti geniali. A ciò pensavamo iersera, al Parco della Musica, mentre ascoltavamo, pervasi da uno stretto ed indistinto susseguirsi di forti emozioni e di sottili beatitudini, la musica del concerto diretto da Claudio Abbado sul podio dell'eccellente «Lucerne Festival Orchestra», cui partecipava, in veste di solista al pianoforte, Martha Argerich: il «Concerto n.1 in do maggiore op.15 per pianoforte ed orchestra» di Beethoven e la «Sinfonia n.7 in mi maggiore» di Anton Bruckner. Due opere arcinote agli appassionati della musica d'arte, ed anche ai dilettanti; eppure ad ascoltarle iersera sotto la guida alchemica di quegli interpreti raffinati, era come se sgorgassero ex novo dagli incunaboli delle nostre anime: già che la grande musica commessa ai grandi interpreti ti dà la singolare e fervidissima sensazione che tu sia compartecipe di quel capolavoro, gloriàndotene segretamente come di cosa tua, inalienabile: la cosa di cui tu sei capace quando t'imagini d'esser come avresti voluto essere da sempre. Il pubblico che occupava la Sala Santa Cecilia assisteva nella pagina beethoveniana alla paradimmatica sintonia d'intenti fra il maestro sul podio e la pianista argentina, non ostante siano i quali antitetici nel carattere e nella psicologia artistica. La sessantaquattrenne Argerich, donna ardente come una torcia, fiume lavico, un morso alla Bellezza, resoluta ad impregnare di musica il suo tumultuante vivere ed i suoi spasmodici amori, com'è occorso, ed il settantaduenne Abbado, monumento d'inflessibile razionalità, rastremata in ineffabile elegía: massime dopo il grave morbo da ch'è stato anni or sono colpito, che gli ha dischiusa l'anima ai suoni dei piú taciti, fitti dolori dell'uomo. Eppure il «Concerto per pianoforte» era iersera unità corrusca di riflessi mozartiani e smaglianti lucori del primo «classicismo» beethoveniano: quasi la temperie della primavera che gioca, vittoriosa su tutto, ad essere l'estate che a lei già si offre, ridendo. Il sommo della serata, se cosi è lecito dire, l'abbiamo tuttavia conseguito per entro quell'oceano di musica estatica disposto dalla «Settima» di Bruckner: ci sono musiche lunghe e musiche la cui lunghezza non ti basta mai, e vorresti non soltanto che non finissero ma che risuonassero eternamente nel tuoi precordi come manifestazione sensibile di quanto non riesci ad esprimere con la parola, il gesto, l'opera. Abbado ha reso la «Settima» manifesto universale dell'umana condizione: quei suoni wagneriani dilagavano ad infinitum come teoremi inoppugnabili d'u