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Nessun erede per la fantasia

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la letteratura torna al realismo

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Era la chiusa della «lezione» dedicata alla leggerezza, dopo la quale sfilavano la rapidità, l'esattezza, la visibilità, la molteplicità, i momenti canonici che «dovrebbero in realtà informare non soltanto l'attività degli scrittori ma ogni gesto della nostra troppo sciatta, svagata esistenza»: «Così, a cavallo del nostro secchio, ci affacceremo al nuovo millennio, senza speranza di trovarvi nulla di più di quello che saremo capaci di portarvi. La leggerezza, per esempio...». Poco prima, in quel testo già concluso, aveva ripreso la storia di questo «secchio» che fa da cavallo, anzi solleva l'omino all'altezza dei primi piani «e lo trasporta ondeggiando come sulla groppa d'un cammello...». Era davvero l'ultimo sforzo, l'estremo, per restituire leggerezza all'idea del raccontare, riferendosi nel caso specifico al «Cavaliere del secchio», strepitoso «viaggio» di un vecchio barone rampante ricavato da un altrettanto clamoroso racconto di Kafka. Ora, adesso, superata l'enfasi della ricorrenza sulla quale la stampa di ogni genere ha celebrato il suo simposio, a bocce ferme, è forse il caso di cercar di capire perché il romanzo italiano del «dopocalvino» — è di lui che stiamo parlando — continua ad annaspare nel vuoto, alla inutile ricerca di una identità che ne riconosca le radici e su quelle proseguire il suo percorso. È un dovere preciso evitare il solito, vecchio discorso, sulla fine del romanzo e sull'inutilità dei consulti di tanti, troppi medici raccolti al suo capezzale. È molto più utile e produttivo invece cercar di intendere le ragioni che condussero Italo Calvino a scrivere «Palomar», dopo essere passato attraverso le avventure neorealiste (che lo videro dirompente...), fantastico/illuministiche («Il Visconte dimezzato», «Il barone rampante», «Il cavaliere inesistente»), fantascientifiche («Ti con zero», «Le cosmicomiche») per approdare al non/romanzo, «Palomar» appunto, la storia di un osservatorio dal quale l'omino (quello leopardiano che fa pazzie per capire cosa c'è oltre la siepe...) scorge una realtà in frantumazione, e uno scrittore futuro del tutto impotente di fronte alla necessità inderogabile del volo. In quel libro/testamento c'è la forte tensione, che diventa via via necessità sempre crescente, di ridurre tutto all'osso, all'essenziale, al minimo, come fa parecchia narrativa nordamericana di oggi, malgrado le reciproche accuse personali più che ragionate, fra Naipaul, che parla di narrativa oggi «senza importanza», e McInerney che gli dà dello sclerotico. Una polemica a piatti in faccia, ma sintomatica, e il cortile del nostro romanzo (così lo chiamava il buon Enrico Falqui...) c'è tutto o quasi tutto dentro, con il suo «peso», la sua impotenza a fronte dei tanti, sterminati «viaggi» che l'arte del raccontare propone. Al cospetto di un romanziere — profetizza Calvino — che lavora sempre ad occhi spalancati (utilizzando frantumi di storia, vicende introspettive, interni di famiglia, il prato arcade e la campagna in fiore...), l'omino calvin/leopardiano alimenta inutilmente (a quanto si legge) il «peso della visibilità», che vuol dire tutto scontato e ovvio, e pure noioso: quante volte il lettore comune entra in libreria, chiede il romanzo che ha vinto il tal premio, si accomoda in poltrona, felice di poter dribblare il quiz televisivo, e dopo un po' si ritrova aggredito dal video... Quando Calvino spiega cos'è per lui la visibilità (antidoto essenziale contro la noia), vuole avvertire «del pericolo che stiamo correndo di perdere una facoltà umana fondamentale: il potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi, di far scaturire colori e forme dall'al

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