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«Il teatro? È come la mortadella»

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I grandi autori non ci sono più, tutto è diventato solo un bene di consumo

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La voce di Carlo Giuffré al telefono è bella e veemente, fa venire in mente impegno e rigore. Quello che da oltre cinquant'anni mette nel lavoro che fa, per cui l'hanno messo nel Dizionario del Teatro del '900 e per cui l'hanno premiato con la «Maschera d'oro 2005» a San Marino sabato scorso. «Alfiere della lingua napoletana, lingua storica del teatro italiano, sa essere attore comico e drammatico di altissimo livello. Una delle più significative figure di capocomico e studioso di teatro…»: così l'ha definito la giuria di critici e studiosi. Circondato dagli affetti familiari (compresi quelli a «quattrozampe» - una lupa, una golden retriever e una meticcetta - che non lo lasciano neanche mentre è al telefono, si gode il riconoscimento, felice perché a dicembre tornerà al Teatro Quirino con «Il medico dei pazzi» ma lasciandosi andare a riflessioni amare: «Sono soddisfatto perché è un premio dato dagli spettatori. Certo, dopo Goldoni, Pirandello e Eduardo, in Italia non abbiamo più una identità drammaturgica. La commedia più bella di Eduardo, "Natale in casa Cupiello", all'estero è la meno rappresentata perché il protagonista è il Presepe. Noi invece dobbiamo "subire" le storie di "Peter e Mary". Poi la gente corre a vedermi perché trova personaggi come "Sciosciammocca", "Concetta", perché sono le storie di tutti, è la forza delle maschere che da Arlecchino, Gianduia e altre ci uniscono. Il nostro teatro è poco esportabile perché è sempre stato in dialetto: il veneto di Goldoni, il siciliano di Pirandello che ci fa venire in mente quello di Camilleri oggi, Eduardo». Lei si è formato all'Accademia d'Arte Drammatica, diretto da Visconti, nel '63 è approdato alla Compagnia dei Giovani De Lullo-Falk-Valli: cosa ha portato con se? «Ho frequentato ogni genere di teatro, ho lavorato con mio fratello Aldo, da quindici anni, da solo, sto riesumando la Commedia dell'Arte, messa all'angolo dal melodrammma. Il teatro ha subito attacchi: un po' come in "Miseria e Nobiltà" dove quando arriva il progresso lo scrivano pubblico non trova più lavoro…. Io cerco di fare teatro, aggiornandolo ma mantenendo le tematiche della nostra realtà». Tra gli «attacchi» c'è anche il cinema? Lei ne ha fatto tanto… «Il cinema fin dalla nascita ha messo fuori gioco il teatro: gli attori per non morire di fame chiedevano la mezz'ora di intervallo per fare l'avanspettacolo. Il cinema per me è stato come un "salvadanaio" anche se a volte ho rifiutato ("Amici miei" e "Speriamo che sia femmina") per impegni teatrali. L'ultimo ciak nel 2002: ero Geppetto nel Pinocchio di Benigni, ma alla prima ho trovato mezza parte tagliata. Una delusione, ma non ne parliamo. Il teatro mi ripaga e mi vendica, perché il teatro è dell'attore, mentre il cinema è del regista». Lei è «il discepolo» di Eduardo De Filippo… «Lo incontrai nel '48. Ero all'Accademia, la sera andavo al Teatro Eliseo a sentirlo: quello era il vero studio, "rubavo", assimilavo. Mi mandò a chiamare, rimasi tre stagioni». E la crisi del teatro italiano? «Non se ne può più di storie che non fanno parte della nostra esperienza; magari la gente sente l'obbligo di dire che si è divertita. Nei cartelloni la quantità vince sulla qualità e a fine stagione gli abbonati non sanno cosa hanno visto. In Italia una commedia brutta sta in scena tanto quanto una bella, non più di un mese: il teatro è diventato un bene di consumo come la mortadella. All'estero invece ci sono rappresentazioni con decenni di repliche». E la televisione? «Alla presentazione di un film russo a Venezia, gli attori giovani arrivavano tutti da scuole di teatro. I nostri, da un po', occupano i circuiti teatrali arrivando dai salotti televisivi, perché vige il potere dell'immagine». Ma lei accetterebbe una fiction? «Ho appena finito la vita di Bartali per Raiuno, nella parte del Cardinale Dalla Costa: il punto è recitare dove ci sia possibilità di recitare bene. Al mio amico Elio Pandolfi una volta, in tv, dissero

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