Vento di vita nel nuovo Neil Young
Tornano le struggenti atmosfere di «Harvest» e «Harvest Moon»
Neil Young si era allarmato perché, facendosi la barba, si era scoperto afflitto da una sorta di sinistro bagliore nel fondo dell'occhio. Il dottor Sun, con quel suo nome da film di serie B, gli disse la verità: «Lei ha un aneurisma al cervello, e dovrà essere operato». Così, nell'aprile scorso, il quasi sessantenne musicista canadese affrettò i tempi per la realizzazione del suo nuovo album: volò a Nashville per registrare tre canzoni, tornò a New York per gli esami clinici preliminari, poi di nuovo in studio, nella capitale della country music, per completare l'opera. Una volta in sala operatoria, tuttò sembro filare liscio. Salvo che due giorni dopo, alla prima passeggiata di prova attorno all'ospedale, Young cadde al suolo svenuto, in un lago di sangue, con l'arteria femorale saltata di colpo, e pochi minuti davanti per farsi rattoppare la pellaccia. Così, non è esagerato parlare di rinascita, letteralmente, per un uomo che, artisticamente, di vite ne ha avute molte. Pagando sempre con dignità il suo debito con la cattiva sorte (due dei suoi figli sono affetti da gravi patologie cerebrali, il più giovane tra loro è quadriplegico) e rifiutandosi di aderire - proprio lui che ne era stato l'autore - a quel comandamento suicida del rock che vuole che sia «meglio bruciare in fretta che declinare a poco a poco»: quel verso di «Hey hey my my» che Kurt Cobain aveva lasciato accanto a sé prima di spararsi in bocca. No, in un anno che è stato fra i più drammatici per lui (mentre era ancora in convalescenza ha visto morire l'adorato padre Scott, un ex grande giornalista sportivo, afflitto negli ultimi tempi da demenza senile) Neil Young recapita speranza e conforto a tutti i vecchi ragazzi della generazione hippie, che temono l'incanutimento come una maledizione. Perché questo suo nuovo «Prairie Wind» è un capolavoro assoluto, uno dei quattro o cinque dischi migliori della sua sua monumentale produzione, all'altezza del leggendario «Harvest» (o del più recente «Harvest Moon») di cui pare l'ideale continuazione, a decenni di distanza. In «Prairie Wind», che arriva dopo l'ambizioso progetto di «Greendale» (il magnifico disco-concept sulla vita di una immaginaria cittadina californiana, divenuto poi un film) c'è lo Young più amabile: quello che mette al bando sperimentazioni coraggiose - ma spesso discutibili - per tuffarsi a volo d'angelo nelle acque del suo purissimo talento folk-country-rock, quello che negli anni Settanta illuminò la scena della West Coast affollata di fragili utopie. Dieci canzoni dove Neil cita se stesso, ma senza scimmiottarsi: e l'armonica sembra tornata quella di «Heart of gold», l'arpeggio di chitarra quello di «Old man» o «The needle and the damage done». Con la voce - quel suo inimitabile lamento, che davvero entra nelle ossa come un vento delle pianure canadesi - a evocare con pochi tratti l'immensità del mistero americano, dove l'anima si perde tra l'illusione del Grande Sogno Occidentale e la pretesa di un'adesione ai segreti della natura - quelli che gli indiani, prima e meglio dei bianchi, avevano saputo decifrare. In «Prairie Wind» c'è tutto questo, oltre alla nostalgia (ma come purificata, mai velenosa) per i tempi dorati dell'innocenza, quando la famiglia era buona coperta contro ogni paura. C'è il consiglio alla figlia pittrice in «The Painter» («Se insegui ogni sogno, potresti perderti...», canta Neil), e la coscienza civile in «No Wonder»; le cartoline dall'infanzia in «It's a Dream» o nella title-track; l'amore offerto in «Here for you» e quello ricevuto in «Falling off the face of the earth»: nata, quest'ultima, da un affettuoso messaggio telefonico che un suo amico gli aveva lasciato, prima dell'intervento chirurgico. E rapinoso è il tempo lento, sospeso di «This old guitar», così come rabbioso il gospel per il Dio politicizzato dai governi in «When God Made Me». Con arrangiamenti scheletriti come in una radiografia del suono, ma ancora spaziosi (e si sente la mano del vecchio sodal