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Senza sviluppo culturale la società si sfalda

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La gente attende d'ascoltare due capolavori assoluti come la «Sinfonia in do maggiore» (KV. 551) di Mozart ed il «Concerto in re maggiore per violino e orchestra» di Beethoven, che sono presto eseguiti con diligenza dalla tedesca «Stuttgarter Kammerorchester» (diretta senza fantasia da Fabrizio Ventura): solista della pagina beethoveniana un Uto Ughi in stato di grazia, tale da infervorare la fitta platea ed i palchi.... Non è dunque vero, siccome si vorrebbe dare ad intendere da taluno, che la musica d'arte non seduca la gente, o che s'indirizzi soltanto ai gravi d'anni ed agli sfegatati del settore: un fenomeno sociale, in somma, affatto marginale. Vero è che se confrontassimo il numero di costoro a quello oceanico dei giovani che inondano gli stadî per gli happening rock, dovremmo ammettere che la musica d'arte è una realtà socialmente ininfluente. Come dovremmo del resto ammettere che tutta la cultura è un fenomeno di proprozioni contenute a petto del prodotto seriale inteso ai consumi di massa. Sotto tale profilo, una fiction di successo, seguita da milioni di telespettatori, assume un'incidenza sociale incomparabilmente superiore alle rappresentazioni teatrali d'un dramma wagneriano o d'una tragedia shakespeariana seguite da alcune migliaia di persone. Ma ciò premesso non è lecito confondere dati numerici con valutazioni estetiche: altrimenti tanto varrebbe eliminare tout-court cultura ed arte, ed abbandonare il Paese ad una sorta di regressione dell'intelligenza e della sensibilità fondata sulla manifestazione d'una caotica determinazione popolare. La coltivazione del gusto non è solo problema di natura estetica bensí strumento di civiltà che incide sulle sfere sociali, politiche e morali della comunità. La somma aritmetica, il numero, non decidono d'una «verità» e d'un bene: la democrazia si fonda sulla definizione ed il rispetto delle regole condivise, non già sull'arbitrio acritico della maggioranza: ché se cosí fosse le conseguenze sarebbero catastrofiche per i destini della stessa civiltà. D'altro canto, gl'ingenti ed immediati interessi economici oggi fanno premio sull'investimento culturale a lunga data, mentre la brama sistematica del guadagno materiale ostacola il lento arricchimento spirituale dell'individuo. I danni cagionati alla civiltà sono incalcolabili, e solo la miopia d'una società disorientata, qual'è la contemporanea, può non prendere atto dei fatali guasti che arreca a sé medesima lungo un processo di decadimento a rischio d'abbrutimento. (Noteremo al proposito che già nel secolo trascorso c'aveva messi in guardia l'intellighenzia europea di varia estrazione: da Huizinga a Benda, da Ortega Y Gasset a Splenger, da Spirito a Maritain....). Non dimentichiamo che fra i fini ed i doveri dello Stato, si contempla lo sviluppo della vita intellettuale del cittadino: ciò che partecipa, per dirla con Aristotele, del «bene comune». La cultura è una specie di ginnastica delle facoltà spirituali. Ma se abbattiamo le palestre ove queste facoltà hanno agio d'esercitarsi e le sostituiamo con spente schiere di cellette asfissianti, le facoltà s'alienano e la cultura muore lasciando il campo al virus della barbarie. La decadenza dello Stato (dal latino status, in origine la condizione dell'uomo singolo) collima con la decadenza della cultura, poiché l'attività inter homines s'arresta se viene a mancare quella in interiore homine. Ecco perché Uto Ughi combatte in Italia una strenua e generosa battaglia per una maggior diffusione della musica d'arte tra i giovani e nelle scuole. Non paia battaglia di poco peso, o settoriale: essa concerne i fondamenti dello spirito e gli orizzonti della comunità.

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