Mario Tronti «Mi spaventava l'idea dei gruppi chiusi»
I famosi "maestri del sospetto": Marx, Nietzsche, Freud, li avevamo bevuti tutti, anche se, poi, l'unico con cui la frequentazione non c'è stata è stato l'ultimo per una diffidenza naturale. Nietzsche, invece, c'è sempre stato ed è stato abbastanza determinante. È vero, anche dal punto di vista dello stile, uno stile che si muove per aforismi(...). Fui io a decidere la chiusura dell'esperienza di Classe Operaia perché mi accorgevo che questo gruppo di persone(...) tendeva a diventare sempre più un gruppo chiuso. Io, durante questo periodo, sono sempre rimasto nel Pci. A me spaventava l'idea di creare un gruppuscolo alla sua sinistra. Nel 1966 uscì, per Einaudi, «Operai e capitale», che ebbe una grossa diffusione. Era il periodo che precedette il 1968(...). «Operai e capitale» voleva essere una rottura epistemologica nel campo della conoscenza dei fenomeni sociali, nella lettura della società, nella politica. Fu fondamentalmente un libro di rottura perché quella era un'epoca che cercava queste rotture, a vari livelli. E questo libro dava una dimostrazione che questa rottura era possibile. E, poi, quell'idea che bisognasse ripartire, a differenza di Marx che era partito dal capitale, dalla classe operaia. Era come se avessimo voluto scrivere un "Capitale" dalla parte opposta, come voler dar voce a chi voce non aveva mai avuto(...). Quando parlavo di rifiuto del lavoro, intendevo dire che poiché il lavoro è una parte del capitale(...) gli operai dovevano lottare sia contro il capitale sia contro il lavoro. Rifiuto del lavoro voleva dire rifiuto degli operai di essere parte produttiva del capitale. Se gli operai si rifiutavano di produrre capitale, ci sarebbe stata la crisi del capitalismo. Nel movimento operaio c'era un po' la retorica del lavoro. Invece, quando andavano fuori dalla fabbrica, gli operai non è che uscivano contenti. Uscivano odiando quelle ore di lavoro che avevano fatto».