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Da Potop ai morti in nome dell'utopia

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Quartiere di Primavalle, primavera del 1973. Il rogo appiccato alla povera casa della famiglia Mattei: missini da bruciare, come "beau geste" rivoluzionario. Muoiono un giovane, Stefano, e un bambino, Virgilio, sacrificati a furori ideologici, che diventano bestialità militante. E subito dopo tetra omertà mafiosa, con qualche giornalista che fa sua la tesi dei fascisti che si ammazzano tra loro. Ma all'interno di Potere Operaio, il «movimento di estrema sinistra più elitario, più controverso e più rivoluzionario» - come lo definisce Aldo Grandi nel suo saggio «La generazione degli anni perduti. Storie di Potere Operaio» (Rizzoli, 356 pagine, 15.50 euro) uscito due anni fa - qualcuno comincia a capire e a prendere le distanze. Certo, la cappa di piombo dell'utopia che ha scatenato i dèmoni grava ancora su molte coscienze. Le Brigate Rosse sono attive dal 1970 e nel 1978 Aldo Moro sarà rapito e poi ucciso, e la sua scorta sterminata, e altri ancora cadranno. La terribile, geometrica potenza militare scatenata dai gruppi di fuoco in via Fani coinvolgerà o suggestionerà, a vario titolo, molti ex di Potop. Ma altri se ne vanno. C'è chi esce da un delirio, c'è chi approda al disincanto, c'è chi si inerpica in ambigui "distinguo", tirando indietro la mano, dopo aver lanciato il sasso. "Guru" che vendevano e vendono fumo cercano di quietare la coscienza allontanando ingombranti spettri grazie a contorcimenti dialettici e calligrafismi estetizzanti. Materia che non manca nel nuovo saggio di Grandi, «Insurrezione armata» (Rizzoli Bur, 440 pagine, 9.50). Ma in questo libro che è archivio della memoria e percorso di autoanalisi c'è dell'altro: ricognizioni nostalgiche, critiche e autocritiche, intenerimenti all'insegna del "poteva essere e non fu", "revisioni" politiche e umane, ripensamenti sofferti (tra i molti testimoni, Francesco Berardi detto "Bifo", Alberto Magnaghi, Valerio Morucci, Jaroslav Novak, Lanfranco Pace, Francesco "Pancho" Pardi, Oreste Scalzone). Però un interrogativo si impone: ma che cosa credevano di fare, dove volevano arrivare, questi giovani intellettuali fanatici e fanatizzanti, spesso ragazzi di buona famiglia, talora addirittura rampolli di illustri casate aristocratiche? La violenza del sacro verbo rivoluzionario non portava inevitabilmente a compiere azioni violente? Oppure si poteva accettare che si potesse tirare una molotov addosso a un poliziotto, mentre era inaccettabile ("politicamente scorretto"?) dar fuoco, con tutte le conseguenze del caso, alla abitazione di un missino che di sicuro non era né un padrone né un servo dei padroni? A colpire, nelle "tranches de vie" raccolte da Grandi è la rievocazione di un estremismo ideologico (ingenuo? incosciente?) che esalta e prevede la pratica rivoluzionaria, ma sembra non rendersi conto che se si predica l'odio contro il nemico, se si fa appello alla lotta contro lo Stato, se ci si definisce "partito dell'insurrezione armata" e della "guerra civile", tutto questo significa essere pronti a colpire. Qualunque "nemico oggettivo": un politico, un giornalista, un fascista "proletario". Per cortese concessione di Aldo Grandi, proponiamo ai lettori quattro brani di testimonianze inedite, che figureranno in una sua nuova prossima pubblicazione.

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