Quarant'anni fa la scomparsa del «dottore» dell'Africa equatoriale

Queste parole sono l'incipit di «Zwischen Wasser und Urwald», il diario che Schweitzer pubblicò nel 1920, al suo primo rientro in Europa dal lebbrosario di Lambarené, nell'allora Gabon francese: una striscia di terra, "tra l'acqua e la giungla", in cui nessun bianco resisteva più di qualche mese senza soccombere alle febbri malariche, se non finiva prima nelle fauci delle bestie feroci o nel pentolone di tribù ancora dedite all'antropofagia. Ma Schweitzer faceva sul serio: non era della pasta di certi intellettuali travolti dal misticismo estivo, che scelgono una vacanza esotica per abbronzarsi e ne escono ritemprati con l'immancabile best-seller in autunno. Quanto alla moglie, la giovane e avvenente Hélène Bresslau, che lo aveva sposato senza nemmeno immaginare cosa stava per caderle sulla testa, lo seguì senza fiatare. Erano altri tempi e lui non si sognò nemmeno di consultarla. A rileggerlo con la mentalità di oggi, tuttavia, questo appassionante diario qualche sorpresa la riserva. L'uomo vi appare come leggenda vuole: un apostolo o profeta biblico di michelangiolesca terribilità con venature di superomismo nietzscheano, e, diciamolo pure, di sconfinato orgoglio. Ma emerge anche tutto ciò che lo poneva agli antipodi dell'umanitarismo buonista, tanto da rendere il suo esempio politicamente scorretto oggi ancor più di allora. Schweitzer, antiegualitarista a 24 carati, è infatti convinto che esistano uomini superiori ed altri inferiori e che i primi debbano soccorrere i secondi per portarli al loro livello, ergo devono faticare di più per guadagnarsi il posto in paradiso. E non aspettate di trovare qui la denuncia del colonialismo: non solo Schweitzer elogia l'opera di molti esploratori e amministratori occidentali, ma ricorda che il commercio degli schiavi era in voga fra gli africani tre secoli prima dei bianchi. Qualche strale anticattolico rivolge semmai ai gesuiti, che sin dal Cinquecento avevano popolato la costa con migliaia di schiavi, senza neanche riuscire a bonificare una palude. Certo, vede e deplora le piaghe portate dall'uomo bianco: l'alcool, lo sfruttamento, le malattie sessuali. Ma sono le colpe di chi ha rinunciato alla propria missione: "La tragedia è quando gli interessi del colonialismo e della cultura non si sovrappongono". Altrettanto colpevole, e per giunta ipocrita, gli sembra negare la natura "primitiva" degli indigeni, che vanno guidati con l'esempio e una mano ferma: "In Europa, si tende a credere che, per pochi soldi, si possano trovare in queste terre tanti lavoratori quanti uno ne desidera. È vero il contrario. Da nessuna parte è più difficile trovare un'adeguata forza-lavoro come tra i popoli primitivi, e da nessuna parte costa così cara, in relazione al livello delle prestazioni". E possono dimostrarsi ingrati, come Joseph, l'infermiere che lo abbandona quando Oganga, il "grande stregone bianco", è costretto a ridurgli la paga. Per Schweitzer, che ha le sue radici nel puritano Ottocento borghese, l'ozio è veramente il padre dei vizi. Per combatterlo non esita a ricorrere a quelle pratiche autoritarie che gli verranno poi tanto rimproverate. All'ospedale è annessa una scuola: se un bambino non la frequenta, viene punito. Ma anche la sete di conoscenza può essere dannosa. Così va punito anche chi si avventura in letture improprie, come i boys di casa, quando aprono una cassa piena di riviste che descrivono la guerra, "evento calamitoso, che ha minato l'autorità dei bianchi di fronte agli indigeni". La missione diventa "centro sanitario, sede e