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Fenoglio sulle orme di Marziale

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Bersaglio della satira uomini e donne d'Alba, città natale dello scrittoreI versi hanno la singolare caratteristica di essere composti come se fossero tradotti dal latino In alcune rime l'autore non disdegna il turpiloquio

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Lo scrittore di Alba morì prematuramente (era del 1922) nel 1963, e questi «Epigrammi» che Gabriele Pedullà ha curato e introdotto con una ampia e ricca prefazione, risalgono a due anni prima della scomparsa, il 1961. Intanto, hanno una singolare caratteristica che li distingue da ogni altro tentativo del genere: sono composti come se fossero tradotti dal latino, con l'utilizzo di nomi latini incontenstabili, e hanno come bersaglio divertito e severo uomini e donne di Alba, la città natale dello scrittore, nel periodo del dopoguerra, importante perché fu quella la stagione in cui meglio che in qualsiasi altro tempo storico, i vizi umani e il valore emersero e si esposero alla berlina di un romanziere che aveva a quel tempo già compiuto il suo progetto, quello di raccontare il dolore d'Italia al tempo della Resistenza e del primo dopoguerra. Ecco perché le strutture portanti di questi versetti, sono la satira e la condanna, un po' faceta, dell'ipocrisia e del cinismo che tanto devastarono l'Italia del dopoguerra, proprio nella stagione in cui era più che necessaria una ricostruzione etica del nostro paese. Furono pubblicati, questi epigrammi, postumi, nell'edizione critica dell'opera fenogliana, da Maria Corti, ma qui sono presentati in volume unico per la prima volta, con l'aggiunta di due inediti, l'epigramma CXI che suona così: «Come esperto di squillo torinesi/ Getulio, almen da noi, non ha rivali/ Tutto sa e narra: le telefonate,/ Gli ambienti, le bellezze, le tariffe». L'altro inedito è più sboccato, sperando venia: «Hai, dicono, la bocca come il culo, / Ma di culo sei stitico, talvolta». È l'ultimo epigramma, il CXL1V, dedicato a Trasea, e lo stesso Fenoglio lo definisce «un turpiloquio», e il vocabolo disvela in sé una sorta di risentimento verso i costumi italici del dopoguerra, ma soprattutto per la delusione a fronte del fallimento di ogni speranza, che percorre trasversalmente l'intera silloge. Ha ragione Pedullà quando ricorda che Roma resta nell'animo dello scrittore di Alba come la città dell'8 settembre 1943: l'armistizio, l'irresponsabilità dei capi, dei soldati che gettano le armi e vestono abiti civili, si arrendono a sparuti gruppi di tedeschi. Una forte delusione che picchia duramente con l'idea della romanità che Fenoglio aveva serbato per tanto tempo, nel cuore. Per questa ragione, la scelta del nome dell'interlocutore ha in sé un sapore di frecciata: Silio, Plautina, Tullo, Cepione, Furio, Crispo, Pollione... Ad ognuno dedica un dardo più o meno velenoso, come faceva Marziale, certamente. Ecco quello su Pollione: «La vita non gustò minimamente./ Sperava di gustare almen la morte./ E non gli accadde di morir d'un colpo?». C'è anche un pizzico di aspra fiorentinità in questo cocktail di punte acuminate, e al contempo convive l'ingenuità, la primitività della battuta dietro la quale si fa strada un tracciato culturale fortemente saldato alla morale comune, all'arguzia popolare. Eccone un altro in cui si fondono passato e presente. È dedicato a Mezio e suona così: «Giuri che tu facesti scudo al duce/ E me teste solleciti? In coscienza/ Mezio, non posso dir. Nella giornata/ Non fui mai teco, sempre fui col duce». Sembra piombare all'improvviso la temperie di quell'irripetibile film di Ettore Scola, «Una giornata particolare». Anche con quella componente di dolorosa comicità che lo stesso Fenoglio aveva così acutamente innestato in un romanzo come «I venti

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