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«Nona» di Beethoven, un trionfo

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L'atto d'accusa di un capolavoro contro l'uomo contemporaneo

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Merito d'istituzioni ed imprenditori avveduti e del maestro Aldo Bennici, direttore artistico. I quali hanno alzato il sipario della kermesse sul concerto mirabilmente diretto, al Teatro Morlacchi di Perugia folto d'un pubblico entusiasta, dal maestro Zubin Mehta alla testa dell'Orchestra e del Coro del «Maggio musicale fiorentino». Ed erano le musiche intese al tema ovviamente religioso che pervade ab origine la «Sagra»: il «Te Deum» e le «Laudi alla Vergine Maria» di Verdi e la «Sinfonia n.9 in re minore» di Beethoven: ancorché accostare i brani di Verdi al capolavoro beethoveniano è come far precedere alla degustazione delle ostriche delle fette di zampone. Se scorrevole è stata la lettura verdiana del maestro indiano, nella «Sinfonia in re minore» l'interprete ha posto in essere tutto il proprio talento: vuoi nel governare e coordinare i complessi strumentali e vocali, vuoi nell'imprimere ad essi quella carica di pathos e di vis drammatica che necessitano alla vita in suono di quei formidabili contenuti poetici. Il senso di monumentalità, di tremenda sublimità, ha quasi sopraffatto la razionalità dell'ascolto per imporsi come condizione a priori di un processo catartico esemplare. Eccellenti, fra gli altri, i quattro solisti vocali: in specie il tenore Jörg Schneider ed il baritono Johan Reuter. Ma c'è da domandarsi se oggi la «Nona» risuoni quale un'opera al fondo religiosa. Siamo in vero propensi a dubitarne. Essa racchiudeva alla nascita il futuro della musica d'arte occidentale che non si è mai attuato; racchiudeva tutta la dignità dell'essere umano che l'Età dei Lumi aveva ipotizzato e che la Storia non ha inverato; racchiudeva quella «religione panica ed universalistica» che la società del Novecento e contemporanea non è stata in grado d'abbracciare e celebrare e che anzi ha ingiuriato con un ritorno alla religione risolta in forma ambigua e violenta di strumento politico. La «Nona» era dunque ciò che non è stata. Essa non è musica religiosa bensí «trascendentale», ch'è cosa affatto diversa (Platone e Kant, ad esempio, sono metafisici, non religiosi). Una trascendenza umanistica e tragica, che contiene in sé stessa l'anelito all'assoluto, come in Bach, ma che a differenza del linguaggio bachiano non possiede piú quell'eloquio armonioso, polifonicamente equilibrato, quella misura, che soli permettono la definizione inconfutabile di un «assoluto». Il linguaggio della «Nona» ha già infranto l'incanto classico. Vale la pena di venire al mondo, se non per altro, per ascoltare l'opus summum beethoveniano ed intuire che immane urto si registra, nella realtà del vivere, fra sí alta e tanta bellezza generata dall'uomo e le turpitudini in cui il medesimo animalescamente si voltola. Contraddizione colossale la cui soluzione non pare contemplarsi entro i parametri della nostra logica. L'«Inno alla gioia» inonda i nostri tempi quale un incubo: un'allucinazione spettrale. Incute paura. Le sue parole di felicità e fraternità additano, in modo implicito, la terribile condanna che Beethoven formula contro la brutale umanità cui siamo approdati, e che la sua musica indirizza contro questo esistere o rantolare del mondo. L'arte somma è sempre fabbrica d'utopie: ma è anche eterno rimpianto d'ideali inadempiuti. E' balsamo ma anche denunzia; consolazione ma anche specchio della cattiva coscienza; aspirazione al «vero» sub specie aesthetica ma anche gioco poetico che s'è ritratto indignato dal tossico «vero». Che poi ciò che a noi sembra il «vero» sia veramente tale, in senso assoluto, è tutt'altra storia. Ed è una storia di scatole cinesi che non può non sfociare nel Mare del Nulla. Di cui misericorde sovrana è forse la Musica: sorella ad Aphrodita, nata da quell'infinito mare.

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