Ughi, come vincere l'abitudine ai trionfi
La musica può molto nei cuori, è vero; è un linguaggio, una carezza, uno stimolante dei piú gagliardi e comprovati d'antica data. Grazie all'assenza della parola, la musica è figlia all'immaginazione: forse l'unica attività che ci renda meno animali degli animali. La musica guadagna le mete che le lucubrazioni dell'intelletto, i riboboli della ragione e le ingenue illusioni delle altre esperienze sensoriali falliscono: con assai scuorno. E' vero: filtro violento e prezioso che stilla e vaga per il cosmo, la musica ci fa parer essere ciò che purtroppo non siamo, né mai saremo, ma vorremmo essere: ossia fonti sublimi ed insieme dolci collettori di bellezze infinite. Si sa che questa della potenza trasfiguratrice della musica, dei suoi balsami portentosi e misericordiosi, è una vecchia storia: un mito che affonda le radici nella notte dei tempi. Ma s'ha da tener conto che i suoni non sono punto sí fatati se a fatarli non s'impegni all'uopo un interprete di vaglia. Il romanzo dipende dal lettore ed il quadro dall'osservatore. La musica per contro nasce dall'interprete, senza il quale i suoni restano lettera morta: cadaverini, macchiuzze e scarabocchietti sul monotono pentagramma. Un autentico interprete invera ed esalta i segni sonori; una mezzacalzetta l'affossa nell'ima tomba della noia: fossero pure d'un Amedeus, o d'un Ludwig van. Ecco, Uto Ughi, maestro violinista, è uno che sa l'arte d'imbandire kermesse superlative alla vita della musica. Gioca con essa, la seduce, la confessa. La mette a nudo, e ne cava i succhi piú aromatici. La riveste di lusinghe e essenzialità, e ne ammanta i profondi contenuti di canti vivaci e struggenti: che paiono rampollare della freschezza tipica della prima volta. Per tale ragione l'artista lombardo piace alle platee piú vaste e composite: ai musicofili come ai capitati per caso, agl'implumi rokkari come ai baccofili forastici, ai bacchettoni sfatti come agli avanguardisti fatti. Piace perché piacciono la primavera, la libertà, la fantasia: ingrediente rari e costosi al vivere. Né si dica che il maestro è un filologo da tavolo anatomico, né che cerchi truccheríe nel becero virtuosismo da baraccone. Ché egli è un signore, un aristocratico che vuole la musica per tutti, ma come lui la fa lui solo e n'è ben consapevole: aristocraticissimamente. E l'altra sera, in un gremito Teatro dell'Opera di Roma, per il concerto inaugurale della manifestazione «Uto Ughi per Roma», quel violino ha replicato sé stesso e provocato l'ennesimo, corale entusiasmo di pubblico.(Maestro, non Le càpita mai d'avvertire come cosa normale il trionfo? Nel qual caso, che gioia Le può ancora dare? L'abitudine è la premessa fedele dell'insoddisfazione...). Tra pagine di Johann Christian Bach, Viotti, Kreisler, Schubert, Sarasate e Massenet, tra brani ironici ed altri lirici, tra fochi d'artificio e liriche incantagioni, sostenuto dalla valentía dei Filarmonici di Roma dal primo violino Marise Regard, Ughi ha adombrata un'ideale galleria dei sogni che non hanno parole: e che seppur le avessero non sarebbero comunicabili: e che seppur comunicabili non sarebbero comprese - cosí come c'insegnava il sofista greco Gorgia riguardo alla realtà tutta.