Il sogno dei quattro Ligabue

E una finale olimpica, quando in una sola botta cadi in terra o sali sul podio. E la vita che ti scorre davanti come in un film accelerato, solo che stavolta ci torni dentro e te la riprendi tutta intera, in tre dimensioni, anche se per una sera e basta. Ecco, Campovolo è stato tutto questo e molto altro, per Ligabue. Una scommessa, un'impresa, un sogno ad occhi aperti, un'illusione. Con quel pissi-pissi fastidioso che insisteva su un dato, "l'autocelebrazione": che però è una definizione buona per tutti i concerti, anche quelli offerti in totale understatement. C'è sempre uno su un palco, che dà via tutto quel che ha, anche quando la voce sembra appesa a un filo, e gli altri sotto. Solo che stavolta i palchi erano quattro, quasi duecentomila i convenuti, e su tutta l'area incombeva la vaga follia dell'ubiquità, con il protagonista ad accorrere qui e là, dal grande palco del rock più robusto a quello ruspante delle zingarate, qui con i talentuosi partner della Banda d'oggi, là con i vecchi amici dei ClanDestino. E dall'altro lato, da solo con la chitarra, o dalla parte opposta per le rivisitazioni unplugged, con l'immenso Mauro Pagani. Liga nello spazio-tempo del Campovolo, quindici anni in tre ore. E mai più così, nel bene e nel male. Con troppe stecche, che daranno problemi in sede di post-produzione del dvd, ma che sono degli attestati al suo coraggio di performer. Senza rete o quasi, dopo due giorni di prove tritate dalla pioggia e dalla complessità della diffusione del suono, della regia dell'allestimento da un colpo e a casa. Ma stavolta il Padreterno ha disposto una tregua, e anche lui fa da sponsor, via le nuvole, e davvero pare l'ultima opzione dell'estate, con la sera a calare dopo un pieno di buona musica: tra gli altri, un redivivo Edoardo Bennato, la sempre incantevole Elisa. Alle nove e venti, dopo il cantico dei grilli, gli schermi del palco principale indicano l'ora x, e dal mondo una freccia indica Campovolo, il posto giusto per delineare l'ultima frontiera del megarock all'italiana, tra la via Emilia e il West. Il video de "Il giorno dei giorni" fa da quinta iperrealista alla partenza dello show, il nuovo singolo suonato live, ed è subito chiaro che questo è rock da vedere, fiutare, ascoltare. Il gigantismo tritatutto alla U2, solo che qui non c'è un tour per rodare idee e confezione, o la va o la spacca. Ligabue è teso al giusto, e lo ricorda nel discorso prima de "I ragazzi sono in giro": «Allora ci siete davvero, non è una balla» , e prima della tenerezza semiacustica di "Hai un momento Dio". Le clip accompagnano le canzoni di questa prima tranche (quella con la Banda) come una sceneggiatura minimalista: durante "Vivo morto o X" appaiono figure stilizzate avvolte in una sorta di incubo post-industriale; mentre "Eri bellissima" (dopo la prurigine de "L'odore del sesso") è avvolta da un cartoon ad alta tensione erotica, e "A che ora è la fine del mondo?" sputa in video proiettili, tracciati radar, bombe alate. Ma è già tempo per mutare il tono della performance, e Liga corre sul palco solista, voce e chitarra per "Sogni di rock'n'roll", "Non è tempo per noi", e la nuova (inedita per il pubblico di Campovolo, che non ha ancora ascoltato il cd in uscita il 16 settembre) "Sono qui per l'amore", fluida, trasognata, impressionista, che dedica a New Orleans. In tre round, la nuda vocazione dell'artista nel corpo a corpo con la musica venuta da chissà dove. Un applauso, da un altro palco il Coro Monte Cusna attacca a cappella "Libera nos a malo", e Luciano raggiunge i ClanDestino per l'amarcord dei primi tre dischi, dal '90 al '93, un bagno di confusa memoria, da "Bambolina e barracuda" a "Sarà un bel souvenir", da "Lambrusco e pop corn" a "Salviamoci la pelle", i rock dell'urgenza di vivere e il ripensamento sentimentale di "Ho messo via". Nel bel mezzo di "Bar Mario" la gag con il manager Majoli, indeciso tra scopa e chitarra, e quello è il locale del cazzeggio innocuo, mica un "Roxy bar" da sbornie pericolo