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PUPI AVATI continua a proporsi come uno degli autori più interessanti (e importanti) del nostro cinema.

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Come cornici ci ha abituati alla sua Bologna o all'Emilia. Oggi parte da quella città, di cui sa tutto, e che sa raccontare con partecipazione affettuosa, poi però ci porta in Puglia, senza perdere mai il suo gusto per l'autenticità e per la cosa vissuta. A Bologna, nel primissimo dopoguerra in cui l'azione si colloca, c'è Liliana, una vedova afflitta da un figlio ladro e scapestrato, Nino. Il marito veniva dalla Puglia, dove sono rimasti suo fratello Giordano, debole di mente, e finito varie volte in manicomio, e due acidissime zie zitelle, intente a spadroneggiare. Liliana, pur sapendo che il suo passato e la sua unione con quel marito che ora ha perduto, non hanno lasciato un buon ricordo, scrive a Giordano, un po' sapendo che lui, in gioventù, era innamorato di lei. L'altro, appena ricevuta la lettera non esita e la invita a tornare con il figlio mettendo, generoso, a disposizione la sua casa, pur continuando in un mestiere che lì è il solo a esercitare, quello di far brillare le tante mine lasciate nei campi dalla guerra. Povera Liliana! Appena arriva, le zie l'accolgono malissimo facendole chiaramente intendere che non vedono l'ora di saperla ripartita (anche perché Nino ha continuato a esibirsi nelle sue malefatte). Giordano, invece, riuscirà ad imporla e, dopo aver detto di considerarla ormai la sua «fidanzata», finirà addirittura per sposarla: facendole vivere, riluttante ma poi consenziente, una «seconda notte di nozze». I sentimenti in primo piano: nel disegno sottile di tutti gli atteggiamenti di Giordano e negli imbarazzi di Liliana. Poi l'umorismo di molte situazioni attorno, specie grazie a quelle zie furbescamente portate quasi al livello di maschere. Mentre, in contrasto, il carattere totalmente negativo, se non addirittura spregevole, di Nino segna in nero un'azione che, con l'abituale «tocco» di Avati, tende anche al lirismo. Con accenti — quasi impalpabili — di una emozione che, dando spazio a quelle mine e alle tante vittime che provocavano, tende con delicatezza a suggerire, appunto, un'aura di impegno civile. Con il contributo di attori straordinari: Antonio Albanese, un trepido Giordano, Katia Ricciarelli, esordendo al cinema come Liliana, tutta raccoglimenti sommessi, Neri Marcoré in un per lui insolito personaggio di cattivo. Festeggiando anche, come zie, Marisa Merlini e Angela Luce, echi felici del nostro cinema di ieri. Ed eccoci all'ultimo film in concorso, «The Constant Gardener» (Il giardiniere tenace), di produzione inglese ma realizzato dal brasiliano Fernando Mereilles di cui si ricorderà «Città di Dio». Lo spunto, un romanzo di John Le Carrè in cui la polemica civile, e politica, strettamente si univa all'avventura, all'intrigo quasi poliziesco e, in parallelo, ma non di sfondo, a una storia d'amore. Siamo in Kenya, la moglie di un diplomatico inglese viene trovata uccisa insieme con un medico di colore con cui aveva intrapreso un viaggio misterioso. Al marito, affranto, si vuol far credere che i due avessero una relazione, presto, però, affiora e sempre più si impone una ben diversa verità. Una multinazionale farmaceutica, per lanciare sul mercato un prodotto destinato a combattere la tubercolosi, faceva in segreto i test della sua pericolosità sulla pelle degli indigeni, che morivano in molti. La donna, con il medico, aveva cominciato ad averne le prove e, anche con la connivenza di alcuni organismi governativi britannici, era stata eliminata. Lo stesso accadrà al marito quando, venuto a capo di tutto, si metterà a sua volta ad indagare. Prima i sospetti sentimentali, poi quelli, autentici, di una trama vergognosa per far denaro al più presto, anche a costo di vite umane. Con un meccanismo abilissimo che svela tutto a poco a poco, sorretto da tensioni forti come le polemiche che ne scaturiscono. Il protagonista è Ralph Fiennes, un diplom

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