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Manzù e la ricerca del classicismo

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Ottanta opere in mostra tra dipinti, sculture, incisioni

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Intitolata "Manzù. La bellezza classica", l'esposizione, che sarà allestita fino al 20 novembre nel Chiostro dell'ex-Convento di San Francesco, è stata presentata ieri, tra gli altri, dal sindaco di Alatri Giuseppe Morini, dal presidente della Fondazione Mastroianni Massimo Struffi, dal curatore Floriano de Santi e da Giacomo Manzoni, nipote del grande scultore scomparso 14 anni fa. L'iniziativa raccoglie più di 80 opere di Giacomo Manzù custodite in musei come l'Accademia Carrara-Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo, il Museo Cesare Brandi di Siena e il Museo d'Arte Costantino Barbella di Chieti o provenienti da collezioni private. «Si tratta di lavori che in alcuni casi non vengono più esposti da diversi decenni, ad esempio il "Busto di Inge" del 1965 o la "Madonna della povertà" del 1933. Ma sono tutti molto ben documentati, pubblicati in mostre e cataloghi», ha sottolineato De Santi, rispondendo così alle recenti polemiche sorte tra gli eredi in occasione della Biennale di Alatri, dove si ipotizzava la presenza di falsi. Del resto, «tra di noi i rapporti sono buoni», ha tagliato corto Giacomo Manzoni, figlio (con la sorella Francesca) di Pio, e nato dal primo matrimonio di Manzù e Antonia Oremi. Gli altri eredi sono la seconda moglie dello scultore bergamasco Inge con i figli Giulia e Mileto. «Abbiamo firmato un accordo per tutelare il nome di Manzù - ha detto - ma possiamo portare avanti iniziative differenti». Una di queste è appunto la mostra di Alatri, per la quale Manzoni ha ottenuto i numerosi prestiti, opere selezionate per illustrare al meglio la ricerca plastica di Manzù, il suo ritorno al classicismo, non quello ottocentesco ma di derivazione rinascimentale. Con opere come "Sulamite", del 1931-32, in marmo e gesso (prestito di un privato), un nudo sdraiato che dà un'idea di grande leggerezza e al tempo stesso rimanda, per la cera rosata che tutto lo ricopre, a suggestioni di antichità. O le due versioni del "Busto di Inge", del '65 e del '67, quest'ultimo archetipo classico che guarda a Donatello.

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