L'ultima lettera del comandante «Mamma vi amo»

"Mia mamma adorata, se giungendovi questo mio scritto qualche cosa mi fosse accaduto, pensate che il mio ultimo pensiero è stato per la mia patria e per voi che ho adorato più di me stesso". La madre del Capitano di Vascello Adone Del Cima la ricevette quando il destino si era già compiuto, il 9 settembre 1943, a nemmeno ventiquattro ore di distanza dall'annuncio dell'armistizio che aveva concluso la guerra contro gli anglo-americani. Si era aperto un altro fronte, come sarebbe stato facile prevedere. I tedeschi, da alleati si erano trasformati in nemici. E i nostri soldati non erano pronti a combatterli, anche perché gli ordini dettati dal maresciallo Badoglio, capo del governo, erano stati confusi e inadeguati. Nel suo messaggio radiofonico (alle ore 19,45 dell'8 settembre), Badoglio aveva comunicato che le forze armate italiane avevano ricevuto la consegna di reagire "a eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza". Troppo poco, in quel momento drammatico. Oggi si direbbe che le "regole d'ingaggio" erano eccessivamente blande. Si poteva reagire, non si doveva attaccare. E in guerra, giocare di rimessa non basta. Adone Del Cima era il comandante della corazzata Roma. Il 9 settembre la Squadra navale italiana - agli ordini dell'ammiraglio Bergamini - ricevette dal ministro della Marina De Courten l'ordine di trasferirsi a Malta, secondo gli impegni assunti alla firma dell'armistizio. Tenendo conto del fatto che le navi italiane erano prive di protezione aerea, l'ammiraglio Cunningham, comandante della Mediterranean Fleet, aveva suggerito che la flotta lasciasse il porto di La Spezia (dove si trovava) al tramonto del giorno 8, per giungere all'alba in prossimità della zona in cui avrebbe potuto fare affidamento sulla protezione alleata. Ma la partenza fu rinviata alle 3 di notte, esponendo le navi al rischio di essere intercettate dai bombardieri e dai caccia tedeschi. Il che puntualmente avvenne. La squadra era composta da tre corazzate (la Roma, la Vittorio Veneto e l'Italia), da sei incrociatori e da nove cacciatorpediniere. Alle 9 del mattino furono avvistati i ricognitori britannici che scesero di quota per verificare se le unità italiane avessero rispettato gli accordi sulle segnalazioni (due grandi dischi neri pitturati sui ponti e un altro sull'albero maestro). Poi comparve in cielo un altro ricognitore, che si tenne fuori tiro: probabilmente tedesco, fu quello che dette le necessarie indicazioni alla Luftwaffe per il successivo attacco. La prima incursione dei bombardieri Dornier 217 ci fu alle 15,10. L'artiglieria delle navi lasciò che gli aerei si avvicinassero senza contrastarli: Bergamini decise di attenersi rigorosamente alle "regole d'ingaggio" comunicate da Badoglio. La contraerea entrò in funzione soltanto quando i Dornier lanciarono le prime bombe. Il primo attacco andò a vuoto, ma quaranta minuti più tardi una seconda squadriglia ricomparve all'orizzonte, e stavolta la contraerea non perse tempo, ma non riuscì ad evitare la catastrofe. La corazzata Italia fu colpita, ma non subì gravi danni. La Roma colò a picco in pochi minuti. I bombardieri tedeschi disponevano di un'arma micidiale: una bomba perforante, telecomandata, a spoletta ritardata, che era in grado di scoppiare dopo aver "bucato" i ponti corazzati. In virtù di queste caratteristiche, l'ordigno poteva essere lanciato da grande distanza, quando il bombardiere era ancora fuori della portata della contraerea. La prima FX71400 (questo era il nome degli ordigni comandati a distanza) attraversò la nave esplodendo sotto lo scafo. La seconda cadde sul lato sinistro, fra la torretta di comando e la torre sopraelevata armata con cannoni da 381 mm, con il conseguente allagamento del locale motori e l'arresto della nave. Tutti i depositi munizione saltarono in aria, provocando numerosi incendi a bordo. La corazzata (classe Dreadnought, 47 mila tonnellate di stazza, gemella della Vittorio Veneto e dell'Italia, che inizialmente si chiamava Littorio) si spezzò in