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Venezia, quando la Cina diventò vicina

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Ne ho seguito tutte le edizioni dal '48, scrivendone per «Il Tempo» salvo quando, nel '71 e '72, ero stato nominato vice commissario della Biennale per il cinema e dall'83 all'86 ero stato eletto direttore del Settore Cinema della Biennale e, conseguentemente della Mostra. Sia come critico, comunque, sia come responsabile delle varie manifestazioni, ho avuto ampio modo di valutare come, attraverso gli anni, questa Mostra si è evoluta, mutando fisionomie e criteri a seconda delle impostazioni date via via dai singoli direttori. Il primo, forse, a segnarla con precise indicazioni è stato, negli anni Sessanta, Luigi Chiarini, un teorico del cinema e un regista di serie qualità. La sua formula, poi celebrata per anni e diventata quasi proverbiale, era «il cinema è industria mentre il film è arte». Logicamente, in armonia con quella formula, a una Mostra che, dalla fondazione del '32 si intitolava all'«arte cinematografica», la sua linea non si discostò mai da scelte rigorose e, spesso, quasi rigide, con programmi in cui in alcuni anni, polemicamente, figuravano solo pochi film perché, diceva, «la quantità è nemica della qualità». Nonostante questo suo rispetto per l'arte, o forse anche per questo, il '68, rischiò, nell'ambito della contestazione, di bloccargli la mostra di quell'anno, salvata quasi all'ultimo momento senza però salvare lui che, pur essendo di sinistra, ostacolato da molti della sua stessa parte, dovette rinunciare l'anno dopo al suo mandato, Cominciarono tempi duri. Anche se a Parigi, in quegli stessi anni, si scriveva sui muri «l'immaginazione al potere», da noi si coniarono a tal segno slogan contro la «meritocrazia» (come subito venne definita), da cancellare addirittura i Leoni della Mostra perché, si proclamava, i premi erano delle discriminazioni inaccettabili. Toccò a me, in quel clima, gestire una prima volta, per due anni, appunto, le manifestazioni veneziane. Ai Leoni «di merito» non potevo tornare perché la formula competitiva era stata abolita e così l'avevano accettata anche i primi successori di Chiarini, ebbi però l'idea di Leoni d'oro alla carriera, attribuendoli a grandi del cinema, come Chaplin, Ford, Carné, e anziché su pochi film, pur facendo scelte oculate, puntai su quelli che meglio potevano rappresentare il maggior numero di cinematografie, anche quelle considerate difficili se non in quegli anni, addirittura inedite: dalla cinese (con il primo film in assoluto visto a Venezia) alla iraniana, allora quasi sconosciuta, a quella della Germania dell'Est, nonostante non vi avessimo ancora rapporti diplomatici (il vialibera, dato che allora la Mostra era dello Stato, me lo fece arrivare Giulio Andreotti in quel periodo ministro degli Esteri). Tra la fine dei Settanta e i primi degli Ottanta maturò una grande svolta. Direttore, dal Consiglio direttivo della Biennale venne eletto Carlo Lizzani, notissimo regista e apprezzato storico del cinema. Era di sinistra e questo gli permise di vincere quel tabù della «meritocrazia», che, dal '69, era stato la palla al piede di tutte le Mostre. Restaurati i Leoni «di merito», con il richiamo della competitività potè inserire nei suoi programmi cinematografie e film tenuti lontani dall'assenza di premi. In più, con una trovata subito imitata da molte manifestazioni di cinema, ebbe l'idea di dare il via a una sezione, detta «Di mezzanotte», in cui, anziché i film per addetti ai lavori («alla Chiarini» per intenderci), si proiettavano quelli suscettibili di ottenere ampi consensi di pubblico. Con il risultato che il Lido, sempre deserto durante la Mostra a partire dalla mezzanotte, rigurgitò di giovani, anche con sacco a pelo, fino alle prime luci dell'alba. Un successo che lì non aveva precedenti. Poi, concluso il quadriennio Lizzani (è il periodo che lo statuto della Biennale fissa per i direttori) toccò a me. Per un verso raccolsi l'eredità di Chiarini, puntando sugli autori e dicendo, nelle conferenze stampa, che le tante bandiere nazionali svettanti in fila sul pala

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