di MAURIZIO SERRA NELLA triste e folta categoria delle vittime dimenticate del nostro secolo, un posto ...
Vi si accenna nella nuova serie di Heimat, il ciclo cinematografico di Edgar Reitz che, nibelungica lentezza a parte, ci sembra uno dei più riusciti tentativi di cultura popolare degli ultimi anni. Sin dagli anni Sessanta erano apparse in Germania le prime stime ufficiali, che indicavano decine se non centinaia di migliaia di decessi, soprattutto a cavallo del 1945-46. Ma solo alla fine degli anni Ottanta uno studioso canadese di scuola (dichiaratamente) revisionista, James Bacque, dopo aver consultato gli archivi disponibili avanzò la cifra impressionante di quasi un milione di morti, circa un quarto dei prigionieri di guerra catturati dai soli alleati occidentali durante l'avanzata in Germania. Il suo primo libro («Other Losses. An Investigation into the Mass Deaths of German Prisoners of War After World War II», Stoddard, Toronto) suscitò comprensibilmente polemiche infuocate e ha già raggiunto la terza edizione. L'autore gli ha fatto seguito ora con un volume destinato alla sorte della popolazione civile fino al 1950, ossia alla fine del regime di occupazione alleata («Crimes & Mercies», Lb, Canada). L'aspetto più impressionante non riguarda solo l'entità delle perdite. Bacque, conti alla mano, insiste sul fatto che le scorte di viveri, medicinali e carburante degli angloamericani sul teatro europeo nell'ultima fase del conflitto erano tali da permettere di far fronte alle conseguenze del collasso nemico. Se ciò non avvenne, fu dunque per scelta deliberata. Disgraziatamente Bacque non ne porta prove consistenti, perché i documenti dell'amministrazione americana sui campi di detenzione in Germania sarebbero stati quasi interamente distrutti. È dunque in modo prevalentemente induttivo, anche se molto abile, che cerca di costruire la tesi di un atteggiamento punitivo dell'alto comando statunitense. Una "pace cartaginese", come l'avrebbe definita il generale Lucius Clay, l'uomo che pochi anni dopo, da governatore americano, organizzò il ponte aereo che salvò Berlino Ovest dal blocco sovietico, divenendo un eroe per i berlinesi, che gli hanno dedicato uno dei viali della città. Bacque non ha dubbi sui responsabili, a cominciare dal comandante supremo, Eisenhower. Ma costui, militare di grande fiuto politico, come avrebbe dimostrato il seguito della sua ascesa che lo portò fino alla Casa Bianca, evitava di mettere nero su bianco istruzioni precise, specie se di questa portata. E dunque di dubbi continuiamo a nutrirne, perché nuovamente mancano le prove. Come mancano contro il generale de Gaulle, accusato di aver ignorato gli appelli della Croce Rossa e le inchieste della stessa stampa francese sulle drammatiche condizioni igienico-alimentari dei circa 750 mila soldati tedeschi che si erano arresi direttamente ai francesi, o che erano stati consegnati loro dagli americani. Servivano come mano d'opera per la ricostruzione della Francia e anche per rimpolpare i ranghi della Legione straniera, in vista dei nuovi impegni in Africa e Indocina. Risultato: circa un terzo dei prigionieri, oltre 250 mila, non fecero più ritorno alle loro case. Quanto agli altri alleati, i britannici, rimasero sostanzialmente a guardare, e gli unici a protestare furono i connazionali di Bacque, ossia i canadesi, che però erano considerati alleati minori, anche se coraggiosi, e furono subito rimessi in riga. Per dimostrare l'intento punitivo dei vincitori, Bacque si basa sostanzialmente su tre argomenti. Il primo è che i circa due milioni di prigionieri alleati ancora in mano tedesca, che furono liberati dopo il crollo del Terzo Reich, vennero assistiti e rimpatriati con la massima efficienza. Perché non fu possibile estendere un trattamento anche solo lontanamente paragonabile ai prigionieri tedeschi? Perché non si volle farlo, risponde. Lo attesterebbe il fatto - e passiamo al secondo argomento - che sin dalla resa tedesca, nel maggio 1945, il comando americano avrebbe respinto l'intermediazione della Svizzera