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di MARIO BERNARDI GUARDI ABBIAMO invaso lo spazio sacro della sua estate, nell'eremo dell'isola d'Elba.

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In realtà, anche qui, miti, riti, liturgie. Il romanzo giallo è una cerimonia e Giorgio Faletti, un officiante celebre e di grande forza suggestiva. Il romanzo giallo è per lei un'antica vocazione sotterranea che, a un certo punto, ha trovato l'occasione di venire alla luce o ha piuttosto le caratteristiche di una fortunata, improvvisa scoperta? «Il romanzo giallo è, a mio avviso, stranamente simile a un testo comico. Tutti e due si dipanano su un doppio binario. L'uno impone di creare un meccanismo d'indagine al di sopra di ogni sospetto e di inserirlo in una storia che contenga dei personaggi che lo rendano credibile. L'altro impone di inventare un personaggio e una storia, e raccontarli in modo che provochino la risata. Mi piaceva e mi piace scrivere e il thriller mi è sembrato un bel banco di prova. Poi avevo una piccola idea che nel tempo si è rivelata, credo, un buon libro. Sicuramente, alla sorpresa generale, si è unita anche la mia». Se non andiamo errati, c'è chi scommetteva sul suo successo prima ancora che «Io uccido» arrivasse in libreria. Che cos'è che poteva dare al thriller di un esordiente questo sigillo di garanzia? Con l'opera seconda lei ha bissato il successo. Anche questo era previsto? «Nel mondo dell'editoria, come nel mondo dello spettacolo, c'è nell'aria uno strano tipo di "antenna" che pare captare i successi in arrivo. Avevo già avuto questa esperienza con "Signor Tenente", la canzone che ho portato a Sanremo nel '94, esperienza che si è ripetuta quando "Io uccido" era ancora una piccola catasta di libri in un deposito. Non so che cosa inneschi questo strano tipo di premonizione, ma nel mio caso sono contento che si sia avverata. Per quanto riguarda il secondo romanzo, "Niente di vero tranne gli occhi", non posso dire di averne previsto il successo, che per sua natura è imprevedibile». Come giudica i suoi precedenti nel mondo dello spettacolo? Sono esperienze di vita con cui ha definitivamente chiuso o pensa di tornare a esprimersi nuovamente in quell'ambito? «C'è in me una incessante necessità di andare a investigare situazioni nuove, non perché sono un megalomane, ma perché sono "goloso" di ogni forma di comunicazione e di espressione. Tutte le esperienze che ho avuto (attore e cantante, autore comico e musicista) sono state importanti perché da ognuna ho imparato qualcosa: l'importanza delle immagini, il senso della sintesi, la necessità di usare un linguaggio diverso per ogni tipo di intento creativo. In questo momento tuttavia, a parte una breve vacanza con la valigia dell'attore per interpretare un piccolo ruolo in un film, è mia intenzione fare l'autore a tempo pieno». Molti pensano al giallo come a un genere di facile consumo. Ma la tradizione è illustre. Con un autore come Poe che fa da battistrada ai grandi della "detective story": Arthur Conan Doyle, Agatha Christie, Ellery Queen, Rex Stout, Dashiell Hammett, Mickey Spillane. «Ci sono autori cosiddetti di genere che, nel tempo, hanno fatto serenamente giustizia di molti loro contemporanei animati da aspirazione ben più ampie e dei quali si è persa ogni traccia. Ogni autore può solo percorrere la sua strada, cercando di conoscerla al meglio, sapendo nel contempo chi è e dove vuole andare e lasciare ai posteri l'ardua sentenza». Questi autori ci sono nella sua biblioteca? Ne è stato ispirato? Oppure le sue fonti sono altre? «Nella letteratura cosiddetta di genere, Mickey Spillane, Joe R. Lansdale, Jeffery Deaver, Michael Connelly, Arturo Perez-Reverte. In senso più ampio, Mark Twain, Jerome K. Jerome, Steinbeck, Hemingway. C'è inoltre un autore sudamericano che adoro: Mario Vargas Llosa». Grande protagonista del giallo è la morte. I personaggi uccidono, vengono uccisi, temono di essere uccisi. E l'autore? Anche lui "uccide"? Ad esempio, la propria paura della morte? O una malattia che, come nel suo caso, minacciò di ucciderla? «La morte nei gialli è un pretesto letterario per innescare una specie di partita a scacchi co

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