Tutti applaudono il giustiziere Beha. Ma nessuno lo vuole ascoltare
Soppressa («senza una motivazione ufficiale») la trasmissione radiofonica «al servizio del cittadino», che richiamava l'eroe mascherato che difendeva o derelitti, Oliviero Beha affida adesso i suoi malumori e mali di pancia alla carta stampata. «Crescete & prostituitevi» s'intitola un pamphlet (Bur, euro 8,20) che mantiene le promesse di copertina fin dalla dedica iniziale: «Sul viale di Tor di Quinto, a Roma, a poche centinaia di metri da un'importante caserma dei carabinieri, passeggia una donna male in arnese, che batte da sempre il marciapiede a qualunque ora e sotto qualunque cielo. Ha settantacinque anni. Il suo nome è Italia». Ce se la potrebbe cavare pensando che l'omonimia sia soltanto casuale. Ma in quasi 160 pagine la casualità viene smontata pezzo per pezzo. Più che un pamphlet, il libro è un'intemerata, scritta di getto (ma appoggiata su argomenti e documentazioni da cronista e inchiestista di razza), con un linguaggio persino affannoso, di chi ha paura di non offrire un quadro sufficientemente fosco. Come gli autori di gialli che affastellano cadaveri per impedire al lettore di prender sonno e di arrivare rapidamente all'ultima pagina. L'assassino - in questo caso - siamo un po' tutti noi, vittime e complici del crollo di moralità del nostro Paese. «Manca l'aria - scrive Beha - un buio che oscura destra e sinistra senza distinzione. E una generazione orfana di valori e ideali. Che fine stiamo facendo? C'è stato un tempo in cui l'Italia poggiava su solidi pilastri. Era l'epoca della Ricostruzione, quella dei grandi "valori morali" su cui edificare un Paese nuovo». Oggi siamo sull'orlo del baratro (o forse siamo già precipitati, senza neppure accorgercene. Verrebbe la tentazione di iscrivere Beha nell'elenco dei catastrofisti (o catastrologhi) e archiviarlo come tale. Ma poi - se leggiamo i giornali e guardiamo i telegiornali (e ci vuole fegato già per dedicarsi a questa civica operazione quotidiana) ci rendiamo conto che fra intercettazioni telefoniche e risse politiche, scalate ai giornali e alle banche, arbitri che entrano a gamba tesa, magistrati che aspirano a governare e politici che pretendono di fare giustizia, veline e calciatori, corruzione e volgarità, etica tradita e morale calpestata - non solo al catastrofismo, ma anche a quello che un tempo si chiamava qualunquismo, abbiamo la tentazione di iscriverci un po' tutti. Un merito a Beha bisogna riconoscerlo, e non è di poco conto. In un'epoca nella quale tutti si riempiono la bocca con un vocabolo straniero - bipartisan - difficile anche da maneggiare (si pronuncia «bi» o «bai»: boh!), lui interpreta questo spirito arbitrale e al di sopra delle bi (due) parti. Ce n'ha per Berlusconi, un Paperone che compra tutto quel che c'è da comprare, e ce l'ha con la sinistra, che fa soltanto casino, urlando contro Berlusconi, e non proponendo alcuna ricetta che possa rimettere in sesto le cose (dopo aver già dimostrato, in cinque anni di governo) di non avere alcuna idea su come rimetterle in sesto. Il vuoto di idee (oltre che di ideologie) è pericoloso e condiviso. «Per rintracciare briciole di indipendenza di giudizio e autonomia di pensiero - scrive Beha, prendendosela anche con gli elettori, non soltanto con gli eletti - bisogna cercare, e parecchio. Gli altri, la stragrande maggioranza, distribuiti nelle due case o casini del bipolarismo tendente al miserabile in cui deperiamo, recitano la parte che si sono o hanno loro assegnato. E ciò riesce loro particolarmente bene in un Paese che recita male ormai quasi tutte le parti, avvolto com'è da un alone di inautenticità che va dall'alto verso il basso. Sembra che a nessuno o quasi importi più nulla di come fa quello che fa, e di cosa significhi quello che dice soprattutto nelle conseguenze di comportamento». Ho sentito Beha esprimere questi concetti in pubblico, davanti a un auditorio molto ampio. La gente applaudiva. Ma era imbarazzata.