Alla musica ho dato tutto senza avere stoffa per sfondare
film di Pupi Avati, ambientato nel mondo del jazz. Sono passati quarant'anni da quando Avati ha smesso di suonare il clarinetto, ma il suo atteggiamento verso la musica non è mutato. Nel suo intimo è sempre un uomo del jazz. Perché dopo il film per la Tv «Jazz Band» che raccontava l'avventura delle orchestre bolognesi e dei loro sforzi per partecipare alla Coppa del Jazz radiofonica e dopo «Bix» storia di un grande e drammatico personaggio degli anni Venti, ha deciso di fare un terzo film sul Jazz? «Non avrei probabilmente mai potuto fare "Ma quando arrivano le ragazze?" in età diversa da questa. Nel senso che a sessantasei anni ho avuto il coraggio, l'ardire di affrontare momenti della mia vita molto personali e soprattutto una ferita ancora non rimarginata e che forse non si rimarginerà mai, quella che riguarda il mio rapporto con la musica. Un rapporto purtroppo segnato dalla mancanza di talento anche se ho dato alla musica sicuramente la parte migliore di me stesso. E come una storia d'amore, in cui c'è uno che innamorato pazzo investe in fantasia, in energie , in risorse tutto quanto ha per poi non essere assolutamente ricambiato, riamato se non da una sorta di diniego continuo, di rifiuto che man mano che il tempo passa non finisce mai di crescere». Immagino che si riferisca al passato di clarinettista nelle orchestre dixieland bolognesi. «Ho trascorso dodici anni da appassionato jazzista accorgendomi soprattutto negli ultimi anni che in realtà alcune persone che mi suonavano accanto e che erano invece titolari di talento erano esseri umani così diversi da me tanto da convincermi a smettere». In che senso erano diversi? «Nel senso che io studiavo, ascoltavo dischi, andavo a lezione, facevo tutte le scale e gli arpeggi possibili e immaginabili. Loro no. Loro ce l'avevano dentro il jazz. Io dovevo in qualche modo assumerlo da fuori, dall'esterno. Introitarlo. Non ce l'ho fatta. Ho abbandonato». È assolutamente sicuro di questa mancanza di talento? Ricordo bene che come clarinettista era superiore a qualche altro, anche piuttosto famoso. Insomma ha verificato in maniera definitiva questa impossibilità a continuare? «Matematicamente. E questo accade a moltissime persone che fraintendono la passione con il talento. Allora mi sono detto: bisogna assolutamente che io la racconti questa storia, seppure atroce che mi riguarda così da vicino. E che non mi limiti a raccontare questa vicenda che riguarda la musica, ma che la ampli anche a quelli che sono gli spazi dell'amicizia e dell' amore. Perché molto spesso si confonde l'amicizia con l'amore e viceversa e quindi il tradimento di entrambi i sentimenti, è purtroppo un passaggio dolorosissimo che io ho vissuto. Sono stato tradito e ho tradito. Sia in amicizia che in amore e anche questo l'ho raccontato nel film in modo molto esplicito e ci sono persone che sicuramente si sono riconosciute». Come è avvenuto il trasferimento dal dilettantismo jazzistico al professionismo del grande e del piccolo schermo? «C'è stato un intervallo che ho vissuto da persona assolutamente normale quando abdicando a quelli che erano i sogni di raccontarmi attraverso la musica, divenni un normalissimo dirigente in una azienda di surgelati. Dopo aver serrato definitivamente il clarinetto nell'astuccio, per quattro anni mi sono occupato di piselli primavera, spinaci e roba del genere. In quel periodo ho ristabilito un rapporto normale con la vita. Mi sono sposato, ho avuto due bambini, l'estate andavo al mare, d'inverno la settimana bianca. Vivendo però un perenne disagio, nel senso che avvertivo di avere definitivamente alle spalle i sogni. E quindi la possibilità di raccontare agli altri quali erano le mie emozioni. Il mio immaginario era definitivamente tramontato. Quindi le mie notti erano insonni, non ero certamente una persona realizzata attraverso i bastoncini di pesce. Il passaggio dal jazz ai surgelati fu una rinuncia traumatica, terribile». Quando è successo ha sm