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Il tenore ricorda Wojtyla, condanna il rock e sogna un duetto con la Aguilera

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Ogni volta che torna nella sua Lajatico, Bocelli trova Giasil, che lo attende scalpitando. Il tenore gli sussurra parole complici, segrete, e poi via, nei campi attorno al paese. Quando tutti e due erano più giovani e spericolati, Andrea lo addestrava a saltare ostacoli: lo stratagemma era piazzare radioline sintonizzate su programmi diversi ad ogni siepe e staccionata, tanto per capire quanto occorresse andare su, senza farsi disarcionare. Sembra una favola, ma lui giura che è vera: «È così - ride -, era un trucco che funzionava sempre, e non montavo solo Giasil, anche se con lui ho sempre avuto un rapporto speciale. Mi piace cavalcare, ma ora, purtroppo, non lo faccio più tanto spesso». Questo è Bocelli: che ha fatto un motto delle parole del "Piccolo Principe" di Saint-Exupery: "non si vede bene che con il cuore". «Una frase che ha generato, probabilmente, la fortuna di quel libro - ammette - e che continua a darmi coraggio. Perché contiene una profonda verità». Di lui, l'amica Celine Dion dice che se l'Onnipotente avesse una voce, sarebbe come quella di Bocelli. «Lasciamo stare Dio dov'è - si schermisce lui - di questi tempi avrà altro cui pensare». Andrea è uomo di spirito, ma niente celie quando si parla di religione: «Io sono credente: anche cantare può essere è un mezzo per cercare un contatto con Chi è lassù. Per me è stato un privilegio potermi esibire di fronte agli ultimi due pontefici. Persone capaci di comunicare emozioni profonde anche a chi non accoglie la Fede dentro di sè. Di Benedetto XVI tutti colgono l'enorme spessore culturale, ma per me incontrarlo ha avuto un significato ancora più avvolgente, totale». Quanto a Giovanni Paolo II, «più volte ho cantato in sua presenza. La prima fu alla Sala Nervi, anni fa: ero devastato, da poche ore avevo perso mio padre. Ma lì davanti al Papa, quel Papa, provai un grande conforto. Un'emozione che poi si è sempre ripetuta, a Bologna, a Parigi. Wojtyla non era uomo di grandi parole, ma aveva la capacità, il dono, di farti riflettere sulla tua vita, sulle vibrazioni del tuo spirito, anche attraverso i silenzi. O un gesto». Come quella carezza che Giovanni Paolo II fece a Bocelli, le mani tra i capelli del cantante, affettuosamente, nell'estate di sei anni fa, a Castelgandolfo. L'artista convocato dal Santo Padre per provare l'Inno del Giubileo, e tutti e due commossi dopo l'esecuzione. Quando, lo scorso aprile, il Papa polacco se n'è andato, Andrea era a Filadelfia per un concerto: e dal palco non ha mancato di dedicargli l'"Ave Maria" di Schubert e "Panis Angelicus", mai così intense. Il silenzio, lo spirito. Bocelli usa il suo talento per investigare il mistero insondabile della musica, il valore delle pause, delle esitazioni, il trasalimento che offre l'armonia. Detesta il rumore, però. E certe implicazioni insidiose del rock. «Mettiamola così - spiega - In ogni nostro gesto il fattore fondamentale è quello dell'intenzione. Se io vado ad ascoltare l'opera a teatro, ne uscirò gratificato, arricchito, ma non disorientato. Ai concerti rock, invece, rischio di venire travolto dal volume, dal tipo di musica, da una sorta di attitudine collettiva. Che innesca aggressività, svenimenti, rabbia, e troppe altre cose negative. La colpa, naturalmente, non è dell'arte, come la violenza negli stadi non è quasi mai responsabilità dei calciatori. Però accade: e la reazione del pubblico diventa fuorviante rispetto alla proposta dal campo, o dal palco. È un dato di fatto». Eppure, lei è di casa nelle grandi occasioni rock. Anche al Live 8, per dire. Che ne pensano gli amici Zucchero e Bono delle sue perplessità? «Niente, perché non ne abbiamo mai parlato. Ma questo è un problema mica da ridere: come modificare la testa dei malintenzionati o degli incoscienti che si drogano o si stordiscono per emulare i loro idoli?» Problema, questo, che Bocelli sente anche come padre. La separazione dalla moglie Enrica lo ha spronato a diventare una sorta di testimonial dei padri costretti a vivere lontano dai loro bambini. «Precisiamo: non so

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