Riscopriamo il Leopardi glottologo che odiava il francese
Questo è il succo dei pensieri di Giacomo Leopardi («Società, lingua e letteratura d'Italia») raccolti negli anni che vanno dal 1816 al 1832 in un libello curato da Vitaliano Brancati nel 1942 per Valentino Bompiani. La rilettura di Leopardi, ovviamente sempre consigliabile, appare quanto mai rinverdita dal dibattito politico di questi giorni e dalla necessità sempre eterna di noi italiani di guardarci indietro, di criticare, di ricavare dalla memoria fatti (quasi sempre inutili e retorici) raramente distinguibili per originalità. Lasciamo da parte per ora la politica e prendiamo ad esempio le pagine del Leopardi glottologo, l'analista che dal 1825 in poi dedica tutto se stesso ad un profondo studio della lingua italiana e delle parole in uso (Spasimato per spasimante. Crusca. Entendu per intendente. Innamorato per innamora. Gaio, gai franc. pp.gg. 4141), riportando in superficie significato, etimologia e senso in una prospettiva sintattica in cui ciascun lemma preso in esame rientra nel quadro come una tessera di mosaico. Gusta molto la rilettura delle annotazioni sui rapporti con il latino (di cui gli italiani sono «conoscitori e imitatori raffinati»), il greco (universalmente riconosciuta come lingua colta e «fonte comune alla quale attingere le parole necessarie»), il tedesco (lingua «antica per carattere»), lo spagnolo («scimmia dell'italiano per l'estrema similitudine con gravi differenze»). Infine il francese. La bestia nera a cui Leopardi dedica, all'incirca, più di dieci capitoli, iniziando da subito con quello su come «La pronunzia francese guasta le parole italiane» arrivando a discutere sull'«Impotenza e strettezza della lingua francese». Su questo argomento il giudizio di Leopardi è insindacabile quanto spietato: «I francesi colla loro pronunzia tolgono a infinite parole che han prese dai latini, italiani, ec. quel suono espressivo che avevano in origine e che è uno dei pregi nelle lingue». Come per l'odierna battaglia contro gli anglicismi avanzanti, Leopardi è investito di un carisma tale da sentirsi in grado di soppesare «la forza della lingua italiana» contro la «debolezza della francese», accusata di impotenza ed inferiorità rispetto a tutte le altre lingue colte d'Europa, capaci di «vestire la forma e lo stile della francese» e non viceversa. Analisi spietata, quanto profetica! Avvincenti le pagine sull'uso «condannevole» del dialetto («perché buoni scrittori non si son dati a scrivere in altra lingua che nella comune»), utile al massimo per "smorfie" e "massime" e che non fu, a suo duro giudizio, «veramente la lingua neppur de' sommi italiani scrittori, nativi toscani, Dante, Petrarca e Boccaccio». (14 Decembre 1823). Stupisce la perentoria originalità di questa presa di posizione sui toscani, non toscani. E la spiega qualche capitolo dopo sottolineando le differenze tra Dante e Omero. Nulla di personale. Dante «fu quasi il primo scrittore italiano, Omero non fu né il primo scrittore, né il primo poeta greco. E la lingua greca architettata sopra un piano assai più naturale del nostro era capace di arrivare alla perfezione in molto meno tempo dell'italiana». Tuttavia la gioventù della nostra lingua è stata anche un vantaggio, sia perché ha permesso a ciascuno di aprire con l'italiano «strade nuovissime da far meravigliare i nazionali», sia per la ricchezza e la varietà linguistica creata dagli scrittori che da Dante in poi, ininterrottamente per cinque secoli hanno creato quel patrimonio di ricchezza che lo stesso Leopardi già nel 1825 considera ineguagliabile. Dunque, cosa manca alla nostra lingua? L'italiano ha tutti gli esempi di stile e di letteratura, «fuorché al genere filosofico moderno e preciso». Cosa avrà voluto dire? *Segretario generale della Società Dante Alighieri