Cerca
Cerca
Edicola digitale
+

Fischi per Ronconi minimalista

default_image

La regia del «Barbiere» scandalizza i puristi, ma la melodia è un trionfo

  • a
  • a
  • a

Diciamo di quelle regíe sovvertitrici, provocatorie, fonti di pareri e giudizî radicalmente contrapposti, le quali entrano orgogliose negli annali (in vero un po' provincialistici) degli scandali lirici. Il discusso regista l'ha combinata stavolta al Festival rossiniano di Pesaro con «Il Barbiere di Siviglia», la piú attesa rappresentazione del cartellone in atto. Il pubblico s'è spaccato in due, com'era ovvio, ed al termine dello spettacolo il partito degli applausi disfrenati ha di poco avuto la meglio su quello dei «buoti» (buh! buh!). Solo acclamazioni, per contro, sono state rivolte, anche a scena aperta, agli esiti della parte musicale, sorretta da una direzione sottile, cesellata, a tratti sibaritica, del maestro Daniele Gatti sul podio della lodevole Orchestra del Comunale di Bologna, che ha goduto di una compagnia di canto d'una bravura rara e strepitosa. A cominciare dal tenore Juan Diego Flórez, Almaviva d'esemplare eleganza e di tecnica belcantistica da manuale (per lui un vero trionfo a sipario alzato); a seguire con il memorando Bartolo di Bruno De Simone, spigliato e divertente come un navigato attore di prosa e con la Rosina di Joyce Didonato, sapiente maestra sia di voce sia di recitazione. Encomiabili altresí il Basilio di Natale De Carolis e il Figaro di Dalibor Jenis, sebbene ambidue non esenti da passaggî d'attenuato splendore vocale e, qua e là, da fragile icasticità espressiva. Per tornare a Ronconi: la sua lettura del capolavoro rossiniano è stata senza dubbio interessante ed intelligente: due qualità mai richieste agli autori-creatori (che operano nella sfera estetica), ma sempre indispensabili agl'interpreti (che operano nella sfera dell'analisi critica). Il regista ha adombrato una sorta di «meta-Barbiere», di «Barbiere al quadrato» recandone in scena i simboli e i segni, nonché gli oggetti scenografici, e calandoli dall'alto, sospesi a mezz'aria tenuti da funi e cordoni. La scena praticamente vuota, d'un bigio desolato, stava ad additare una stramba sala di registrazione dell'opera rossiniana. Sul fondo era colloocato uno schermo, ove si proiettava il filmato d'un vecchio «Barbiere» d'impostazione affatto tradizionale. Questo stile minimalista - i cui oggetti d'arredamento paiono quelli che puoi acquistare da Ikea - è stato realizzato con raffinatezza architettonica ed ambientale da Gae Aulenti in una delle sue prestazioni teatrali piú persuasive ed indovinate. L'accordo con Ronconi era presso che perfetto. L'atmosfera, quella di un capolavoro ovunque arcinoto che, a coglierne l'essenza perenne, è calato in una dimensione astratta, geometrica e razionalista, quale riflesso della musica mirabilmente geometrica ed astratta, antiromantica ed illuministica, del Pesarese. Da qui i costumi d'epoche varie, dalle parrucche del Settecento ai doppipetti del Novecento. Ma da qui anche la cifra d'alienazione donde era permeato il clima espressivo, che stranamente favoriva l'esplodere in scena di quella dimensione «buffa», di quell'accento comico e stralunato che governa il «Barbiere». Ebbene, Ronconi ha saputo farci ridere di cuore, come non accadeva da lunga pezza. Non ha tradito l'ironia del Maestro per privilegiare i giochi ed i vezzi d'un narcisistico intellettualismo. C'era tutto il «Barbiere» nella sua meditata «rivisitazione». Ma se molti fra il pubblico internazionale che assisteva allo spettacolo hanno rumorosamente contestato il regista è perché non hanno capito quella versione: colpa del regista che non si è fatto capire da coloro. A meno che il «farsi capire» non sia obbligatorio per un interprete: sulla qual cosa si potrebbe anche discettare a lungo.

Dai blog