Bruni Tedeschi bravissima, ma non salva la follia nippo-francese
Anche se spesso va a Tokio e dice di capire poco il francese. I suoi primi due film, «M/Other» e «H Story», presentati a Cannes, sono stati accolti con favore dai cinefili. Io, che non ho mai militato in quelle fila, di fronte al suo terzo film, «Un Couple parfait» (Una coppia perfetta), sceso qui ieri in concorso, mi dichiaro, invece, a dir poco sconcertato: pur conoscendo la vena sperimentale cui Suwa si abbevera fin dai suoi esordi. La storia è presto detta. Nicolas e Marie sono sposati da quindici anni, vivono all'estero e tornano per qualche giorno a Parigi dovendo assistere al matrimonio di due amici. Sono in crisi, però, hanno deciso di divorziare e quel viaggio promette di essere il loro ultimo momento insieme. Bastano invece pochi giorni, pur tra ripicche, rimbrotti, improvvise gelosie, per rimettere tutto a posto. Niente più divorzio... Il regista giapponese, pur avendo di certo visti gli splendidi film di Eric Rohmer e i suoi modi ispirati per rappresentare storie di questo tipo, si è data come regola la staticità più assoluta. Intanto nelle immagini, in cui sono rigorosamente messi al bando i movimenti di macchina. Poi nei due personaggi centrali, facendoli agire con una lentezza esasperante, mettendo loro in bocca dei dialoghi scopertamente quotidiani pensando, in tanto falso, di «far vero». E coronando il tutto con il buio. Le figure vi si propongono come ombre, gli interni e gli esterni sono privati di luce quasi allo stesso modo e anche quei pochi primi piani che ci vengono concessi — importanti perché la protagonista è la nostra bravissima Valeria Bruni Tedeschi — ci vengono fatti unicamente intuire, con tali effetti di oscurità che si finisce per affidarsi solo alle voci, spesso, però, ascoltate fuori campo. Per Valeria Bruni Tedeschi basta perché, recitando in un francese perfetto, senza accento, riesce a salvare almeno la sua presenza, ma per il film è quasi la negazione del cinema. Comunque la pensino i cinefili. Mi ha convinto di più invece il film canadese «Familia» dell'esordiente Louise Archambault. Il titolo dice subito il suo tema: delle storie di famiglie analizzate attraverso i problemi dei genitori, dei figli adolescenti e anche dei nonni. Tutti piuttosto scombinati, con minorenni che restano incinte per nulla sorvegliate da mamme dedite all'alcool e al gioco, con un padre che si è fatti due focolari con una moglie di qua e un'altra di là, naturalmente con figli in entrambi, con dei nonni più scapestrati dei nipoti. Un ritratto duro, senza concessioni, con finali negativi per tutti. Risolto però con piglio sicuro e un senso felice dei climi e dei ritmi. Così qui finora il cinema canadese è quello che ha mostrato più meriti. Domani, però, arriva «La guerra di Mario» del nostro Capuano. E spero molto.