di ALESSANDRO MASI * «SE CI FU errore, fu errore mio» scrisse di sé Italo Svevo cercando di spiegare ...
Quel libro «non ottenne una sola parola di lode o di biasimo dalla nostra critica. E per venticinque anni mi astenni dallo scrivere». Era il 1898 e l'ebreo triestino Aron Hector Schmitz, più noto con il nome di Italo Svevo (1861-1928) aveva fatto pubblicare a proprie spese due romanzi dall'editore Vram: «Una vita» nel 1899 e «Senilità», appunto, nel 1898. I due libri passarono pressoché inosservati e come promesso ripose la penna in un cassetto e dall'anno successivo - un po' per la delusione, un po' per i gravi problemi economici che incombevano sulla famiglia - tornò a lavorare nell'azienda di vernici sottomarine del suocero divenendone ben presto il principale dirigente. Trementine, essenze di vernice, colori e libri tuttavia tornarono a mischiarsi negli anni che seguirono, non potendo eliminare dalla sua vita «quella ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura». L'ostinazione intellettuale era forse pari all'amore per sua moglie, Livia Veneziani, per la quale aveva abbandonato la sua fede originaria ebraica per convertirsi al cattolicesimo, ma certo assai meno suadente dei profitti che gli provenivano dal lavoro nell'azienda del suocero. Fu così che nel 1903 deciso a proseguire gli studi e volendo frequentare un corso di inglese presso la Berlitz School di Trieste, si ritrovò scolaro nientedimeno che del grande James Joyce, del quale divenne amico e il cui incitamento a riprendere l'impegno letterario contribuirà non poco al suo successo. Nella Trieste adriatica e mitteleuropea di fine secolo, porta commerciale tra occidente ed oriente, città di rigida tradizione asburgica già percorsa da fremiti nazionalisti, stava Italo Svevo come sospeso in attesa di giudizio. La aspirazioni di certo non mancavano, ma la fortuna sembrava non voler ancora bussare all'uscio della sua casa. Ci riprovò allora con un terzo romanzo, «La coscienza di Zeno», pubblicato a Bologna nel 1923, stavolta a spese dell'Editore Cappelli. Fu un successo! Joyce ne rimase entusiasta al punto di occuparsi della promozione e conoscenza del romanzo in tutta Europa. Qualcosa sembrava finalmente cominciare a funzionare nella vita dell'ormai maturo Italo. E come sempre accade per magia, arrivò anche il suo momento: fu "scoperto" e spinto a rompere ogni indugio da Eugenio Montale in persona, il quale gli dedicò nel 1925 un articolo, intitolato per l'appunto «Omaggio» sulla rivista «Esame», che aprì di fatto un vero e proprio caso letterario internazionale con riconoscimenti critici prestigiosi a firma di Valèry, Larbaud e lo stesso Benjamin Crèmieux di cui ci siamo già occupati nelle rubriche precedenti per i suoi meriti verso l'Italia. «Una vita» (1892), «Senilità» (1898) e dopo tanti anni «La coscienza di Zeno» (1923), formano una trilogia con cui Svevo scandaglia il personaggio autobiografico con un'analisi spietata dell'inconfessabilità dell'io più profondo. Scrivo queste brevi note in ricordo di Italo Svevo per una fortuita coincidenza, avendo visto in questi giorni in una libreria di Spalato proprio «Senilità» («Mlada starost») tradotto in lingua croata da Vanesa Begic, studiosa di letteratura italiana a Pola, scrittrice e poetessa anch'ella e traduttrice di altri autori importanti tra cui Malombra di Antonio Fogazzaro. Il libro che si presenta con una copertina molto elegante è stato sostenuto dal Ministero della Cultura della Repubblica di Croazia ed è un merito che sottolineo, pensando con quanta fatica i nostri ministeri competenti tentino, spesso con fatica, di abbozzare strategie di diffusione della nostra letteratura all'estero. Alla studiosa Vanesa Begic di Pola va il merito di aver realizzato con apparente semplicità un progetto tanto difficile da comprendere dalle nostre Commissioni, ossia che la traduzione deve avere un sostegno reale, una ragion d'essere e soprattutto un pubblico destinato a leggere. Come si fa a tradurre anche questo concetto? * Segretario Generale Società Dante Alighieri