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di ALESSANDRO MASI (*) CHE LINGUA parla il Terrore? Di solito la paura ammutolisce, fa zittire, toglie il fiato.

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Il Terrore non usa parole, non fa discorsi. Di fronte alla violenza si può rimanere increduli, sgranare gli occhi, balbettare, ma non parlare. Il Terrore deve soltanto terrorizzare. Terrorizzare e basta! I sanguinari che in questi giorni stanno mettendo sotto scacco l'intera città di Londra e che hanno preannunciato attentati anche in Italia e in Danimarca parlano poco, ma agiscono con molta determinazione. Il loro linguaggio è fatto di simboli scaramantici o criptici, come ad esempio il numero «quattro» che è alla base d'ogni attacco (quattro le metropolitane, quattro gli aerei in America l'11 settembre, e così via) e che per il mondo islamico è una parola impronunciabile. Oppure si limita a proclami brevi intrisi di farneticazioni o di ultimatum senza appello. La loro forza non consiste nella dialettica di un discorso, quanto nell'allegoria funebre della scia di sangue e di morte che si lasciano dietro. Tutto ciò riguarda il metalinguaggio ed appartiene più al mondo del non detto che a quello dell'esplicito, ossia vale per ciò che potrebbe fare intendere o presagire, scatenando di fatto un gioco perverso di fantasie molto spesso orribili. Per questi motivi hanno fatto bene le autorità inglesi a «censurare» ogni forma amplificata di richiami giornalistici, sia delle televisioni sia della carta stampata, che desse troppo risalto alle esplosioni di luglio. Innanzitutto perché i telegiornali non offrissero troppo il fianco ad una vista truculenta delle carneficine (sebbene la tentazione di far vedere qualche maschera di sangue non sia del tutto mancata), sia perché il valore inespresso dei simboli rimanesse volontariamente occultato o almeno non troppo «strillato» dalle prime pagine dei quotidiani. Hanno fatto bene? Hanno sbagliato? Sono riusciti nell'intento oppure la realtà è stata superata ancora una volta dalla fantasia? In effetti quello che questi tristi giorni stanno dimostrando è che più che nei avvenimenti, di per sé innegabilmente dolorosi, la vera battaglia si sta giocando sui simboli, sul valore metalinguistico della tragicità dell'evento sia nel bene (per le ragioni di chi ferocemente attacca), sia nel male (per chi ne sta subendo dolorosamente le conseguenze). I primi fanno di tutto purché se ne parli; gli altri vorrebbero cancellare gran parte del dizionario corrente, almeno fino alla lettera T, di Terrore. Terrore, dal latino terror, terrere, ossia atterrire è appunto il vocabolo che stiamo riadattando all'uso quotidiano insieme a molti altri come strage, spavento, calma, panico, sicurezza, prevenzione e libertà. Il vocabolario italiano o il dizionario dei sinonimi e contrari conosce bene tutte le terminologie dell'emergenza avendo in passato già fronteggiato terrorismi di ogni colore con ogni forma di argomentazione dialettica e morale. Allora i nemici avevano un volto riconoscibile e bene si adattavano alla loro identità i discorsi di uomini di Stato e di Chiesa. Chi non ricorda Paolo VI implorare gli «uomini delle Brigate Rosse» di liberare Aldo Moro? A chi possono intimare di fermarsi invece oggi il Presidente Ciampi, Berlusconi o il Papa Benedetto XVI? A quali risorse della nostra lingua si dovrà attingere per incidere nelle coscienze di chi ascolterà o leggerà le suppliche e gli appelli (anche quelli degli Imam) affinché cessi questa inutile strage di esseri umani? È tempo che la nostra lingua si prepari, se chiamata a fare la sua parte, a dare il meglio di sé articolando al massimo il ventaglio grammaticale per fronteggiare un nemico invisibile contro il quale le parole valgono più di un rastrellamento di polizia. Dobbiamo convincere, persuadere, dimostrare a chi ci ascolta che le ragioni della vita sono più forti di ogni sentimento di morte. Tutti noi chiamati ad informare ed istruire dovremo costituire un comitato etico per la lingua italiana a difesa dal Terrore e per la promozione di un'altra T, quella di Tolleranza. (*) segretario generale Società Dante Alighieri

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