Berlin, Cole Porter, Rogers, Kern negli States delle «Piccole donne»
Ma chi l'ha scritta s'è affidato solo al suo orecchio, meglio, alla sua voce suggestiva e furba. Uscì, insomma, dalla mente di Irving Berlin la nenia sussurrata da Bing Crosby. Mieloso song che squaderna l'America anni Quaranta, tanto lontana dalla guerra che pure le diventò vicina. Con la voglia del focolare luccicante, dell'albero addobbato come si conviene, nel più ovvio conformismo da american dream. Sono gli States delle Piccole donne: non a caso una delle fanciulle uscite dalla penna della Alcott se ne esce con una battuta che è tutta un programma: «Natale senza regali non è Natale». Eppure Berlin era il contrario del conformismo, per quella sua vita tutta azzardo. Un emigrato russo ebreo, senza arte né parte, che seppe diventare il re di Broadway e di Hollywood. È uno dei quattro protagonisti, Israel Baline (come si chiamava davvero, prima di americanizzarsi) di «C'era una volta Broadway» che Sergio Camerino, per Bompiani, ha dedicato al genere, la musical comedy, considerato l'unica forma originale di teatro nata oltreoceano. Non un libro tecnico ma uno squarcio di storia del costume. Sottofondo, la colonna sonora firmata da Cole Porter e da Richard Rodgers, da Jerome Kern e, appunto, da Berlin. Le canzoni sono i cosiddetti evergreen, note che mettono in moto l'immaginario collettivo e dunque la nostalgia: Night and day, Blue Moon, Ol' man river, Smoke gets in your eyes, My funny Valentine. Le facce di questo «romanzo» sugli yankees: Judy Garland e Sinatra, Benny Goodman e Shirley Temple o i fratelli Marx.... In un'America ruggente, non si sa se più puritana e liberale o sfrontata e protezionista. Arruffata e geniale, affascinata dal Vecchio Continente ma diffidente verso quelli che scendevano dai piroscafi con la valigia di cartone. Al punto da giustiziare gli innocenti Sacco e Vanzetti. L'America dai Venti ai Cinquanta, in un racconto che si apre con Francis Scott Fitzgerald per chiudersi con Marilyn e John Fitzgerald Kennedy. Israel Baline - raccontiamo la sua storia, degna di un copione cinematografico - si fece le ossa nei caffè-bordello del Lower Est Side di New York. Cantava nei locali, raccoglieva le monetine. Aveva quattordici anni, era orfano di padre. Un altro ebreo russo, padrone di un locale, decide che ha talento e lo scrittura. Lui improvvisa un motivetto, ci appiccica una filastrocca, poi lo fa trasportare sul pentagramma da un amico violinista. Guadagna tanto da poter cambiare casa, e quartiere, e abito. E imbrocca la prima invenzione, il ragtime. Un ritmo spezzato, sincopato, la fotografia della convulsa Grande Mela, come la Rapsodia in blu di Gershwin nel mondo di celluloide di Woody Allen s'identificherà con Manhattan. «Alexander'r Ragtime Band», del 1910, è uno straordinario successo, a Berlin si spalancano le porte di Broadway, l'impresario Ziegfield gli commissiona in uno show una canzone con dodici ritornelli, per le 12-ragazze-12 che devono sgambettare sul palcoscenico. Ma Berlin è ormai un americano nelle viscere, incarna - nota Camerino - gli yankees veri, quelli con tre soli chiodi fissi: famiglia, patria, show business. Non a caso scrive un musical in onore della Statua della libertà, il «faro» di New York. Agli affari s'inchina diventando imprenditore di se stesso, alla famiglia infilando il matrimonio giusto, per salire ancora un po' di più nella scala sociale. Lei è un'ereditiera, Ellin Mackay. Il padre è tipo da poter ospitare Edoardo principe di Galles nella residenza estiva di cinquanta stanze. Ma l'ebreo russo come genero non lo vuole, disereda la figlia. E giù gossip, titoli di giornali. Se c'è un lato che fa sembrare finta la vita di Berlin - come un romanzo d'appendice o, se volete, una fiction da record d'ascolti - è l'altalena di fortuna e sfortuna. Wall Street arriva a vanificare la distanza economica tra suocero riccone e geniale ma «proletario» genero compositore. Il quale agguanta il più grande colpo. Si chiama Hollywood, si chiama Rko, la casa cinemat