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Planet Funk, una pentola di psichedelia e rock

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Tre ingredienti che la band, in un'ora e mezza di concerto (due considerando i bis), pazientemente miscela insieme: «Nella stessa pentola». L'origine del gruppo è partenopea, loro sono quattro ma in realtà, a ogni concerto, quando salgono sul palco diventano una decina tra dj's di supporto e ospiti internazionali. La loro lingua è l'inglese, grimaldello per espatriare e conquistare con l'elettronica l'Europa intera. E la band si racconta, attraverso le parole del portavoce, Sergio Della Monica. In concerto a Roma. Quante persone dietro la consolle? «Saremo al completo. Batteria, sequenze, vocalist e John Graham che, insieme a noi, ha suonato sette canzoni: sarà una sintesi del percorso musicale che abbiamo tracciato con due dischi e... una sorpresa» Un ospite inatteso? Un musicista? «Non possiamo dire nulla, altrimenti rovineremmo il colpo di scena al pubblico romano che verrà a vederci. In ogni modo, sarà una persona che ha già lavorato con noi». Cosa è cambiato dagli anni Novanta, dagli esordi, a oggi? «Il vero esordio c'è stato con Chase the sun, che la notte del Capodanno del 2000 inaugurò il nuovo millennio praticamente in tutte le case e le discoteche italiane. Più che cambiare noi è cambiato quello che abbiamo intorno» In che senso? «Che la nostra musica è influenzata da ciò che accade attorno a noi. Il "sociale" è fondamentale, una sorta di fonte di ispirazione. Ne sono un esempio i video che abbiamo girato» Da cosa siete influenzati? «Da tutto ciò che ci circonda, dai problemi, dalle grandi discussioni su ciò che è giusto e ingiusto. Come i no-global, c'è la globalizzazione cattiva e ciò a cui uno pensa guardandosi allo specchio: ti dici che bere un bicchiere di Coca Cola non ha mai fatto male a nessuno». Il lato oscuro della globalizzazione. «I brevetti per i farmaci contro l'Aids. Se li tengono ben stretti mentre dovrebbero essere accessibili a tutti». Tecnologia, globalizzazione. E il Live8? Pentito della partecipazione? «Assolutamente no. Viviamo contraddizioni da occidente. Siamo stati tutti contenti di andare al Live8. E poi? Era importante la presenza: l'evento nasceva dalla base ma ora l'evento deve avere un seguito». Qual è la formula magica del vostro successo? «Preferisco parlare di peculiarità, piuttosto. Note caratterizzate da un linguaggio comprensibile in qualsiasi parte del mondo» L'inglese ha fatto buon gioco. Tra i progetti nessun disco in italiano? «L'inglese è una lingua universale. Nonostante questo abbiamo collaborato con Jovanotti nell'ultimo disco... chissà se nel futuro... anche se consideriamo musica d'autore italiana solamente quella che parte da Battisti e arriva a De André. Non mettiamo steccati che possano bloccare la nostra creatività».

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