Cerca
Logo
Cerca
Edicola digitale
+

«La musica non fa rivoluzioni»

Esplora:
default_image

In tour in Italia tutti i reduci del rock californiano degli anni Sessanta

  • a
  • a
  • a

Sul palco i Jefferson Airplane, i Great Society e i Charlatans. L'utopia di cambiare il mondo attraverso l'amore, propria dei figli dei fiori, contagiò tutta l'America e San Francisco divenne la capitale mondiale della cultura underground. I quarant'anni della storica "estate dell'amore" verranno ricordati stasera a Porto s. Elpidio, nelle Marche, in una serata chiamata per l'appunto «Summer of Love», inserita nel cartellone del Festival Blues di Marca, che si tiene in questi giorni (fino al 17 luglio) nella provincia di Fermo, e che prevede la presenza dei Madredeus, di Chuck Berry, di Charlie Haden e di James Brown. Sul palco alcuni dei grandi protagonisti dell'epoca: i Big Brother and the Holding Company, la band di supporto di Janis Joplin, i Jefferson Family, cioè un paio di Jefferson Airplane (Pail Kantner e Marty Balin) con David Frieberg, fondatore dei Quicksilver Messenger Service e Tom Constanten, ex Grateful Dead, ed infine il venerando Country Joe McDonald con i suoi Fish, che abbiamo raggiunto al telefono. All'epoca lei aveva un credo ideologico forte. Condivideva anche l'uso delle droghe, che una volta apparteneva alla cultura dell'utopia? «Ero preso anche dalla cultura hippie, ma i miei genitori erano comunisti, quindi era normale che io fossi più vicino di altri alla politica. Sbagliavamo nell'usare le droghe, ma non cercavamo nessuna utopia. Noi cercavamo, e ancora cerchiamo, un mondo di pace e di amore». Allora c'era il Vietnam, oggi l'iraq, le cose non sono poi cambiate tanto.. «Il mondo è cambiato, è più piccolo, grazie alla comunicazione. Forse la politica non è cambiata tanto, ma l'America non può fare più quello che vuole». Una volta i grandi concerti ai quali cui lei ha partecipato, Monterey e Woodstock, erano autoreferenziali. Adesso si fanno per sensibilizzare la gente sui grandi problemi come l'Africa. La musica può fare ancora qualcosa o si rivolge a chi è già sensibile? «Non penso che la musica possa cambiare qualcosa. Quella di oggi è diversa, più diretta. Per me la musica è un'esperienza spirituale, non politica». Uno degli strumenti principali della sua band era l'organo Farfisa. Lei sa che suonerà nella terra dove viene fabbricato? «No, non lo sapevo. Mi piacerebbe visitare la fabbrica. Le racconto un aneddoto. Nel 1966 eravamo senza un dollaro, abbiamo risparmiato tantissimo per poter comprare il Farfisa più economico. Aveva un sacco di tasti: violino, trombone, tuba, sax. Li abbiamo premuti tutti, ma ha fatto solamente due suoni diversi». In questo periodo si stanno riformando molte grandi band del passato come i Pink Floyd e gli Who. Anche la vostra si è rimessa insieme l'anno scorso. Sono le epoche che generano i grandi artisti o è il contrario? «Perché lo chiede a me? Io sono solo un musicista». Perché ha vissuto da protagonista una grande epoca. «Non è colpa mia». Saluta ancora il suo pubblico con il famoso «fuck»? «Sì, ma solo gli americani o gli inglesi possono capirne lo spirito».

Dai blog