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di SARINA BIRAGHI L'IDOLO che non c'è parla al telefono con voce serena, parole scelte con cura che ...

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L'idolo nascosto si racconta, non diresti mai che per lui stravedono in migliaia, che è il signore indiscusso di una curva, che è l'uomo che ha regalato alla Lazio quel derby che le mancava dal Duemila. Ma lui, Paolo Di Canio, romano di Roma e laziale di cuore, parla di sé, della sua squadra, di sua moglie e delle due bambine, di politica e di soldi senza andar mai sopra le righe, negandosi qualsiasi etichetta: semplicemente lui, professione, calciatore. Sulle sue scelte e sul rientro in Italia ha ora scritto un libro: «Il ritorno - un anno vissuto pericolosamente», realizzato a con la giornalista Elisabetta Esposito. Parla subito della famiglia, quella dove è cresciuto con mamma, papà e altri tre fratelli, e quella che ha costruito con Elisabetta, nella quale Ludovica e Lucrezia sono le stelle. «Eravamo quattro, io il più piccolo, e la fortuna che ho avuto credo sia il premio per i miei che hanno faticato per tirarci su. Mi hanno aiutato, loro e qualcuno lassù e ora li posso aiutare io, è un enorme grazie che ogni giorno sento di dovergli dire». Una fortuna, però, non piovuta dal cielo: «È un gran bel lavoro, questo. Ma devi faticare. Se rallenti ti sorpassano in cento». Lei è un bel po' che corre senza rallentare. Zola ha detto basta l'altro giorno. Si sente un po' dinosauro sopravvissuto? «Ha fatto bene, Gianfranco, se non sentiva più nella testa la spinta che ci vuole. Alzarsi alla mattina e sapere che ti devi allenare, a volte pesa. A volte ti senti svuotato. A me non è successo, ancora. Se sono sul campo e mi accorgo che certi tempi, certi movimenti, non mi riescono bene, riprovo e riprovo ancora finché non fila tutto liscio. Mi sento ancora energia sufficiente, per questo quando ho capito che i dirigenti avevano perplessità, ci sono rimasto un po' male. Del resto chi esita davanti allo sforzo è colui la cui anima è ottusa. Ho accettato un contratto da 250.000 euro all'anno, fino al 2006, per dimostrare anche a loro che ci sono ancora, che alla Lazio posso dar molto». I soldi e la Lazio. Un binomio che ultimamente funziona poco. «Quando sento le cifre che volano in altre squadre, penso che siamo ormai a un punto di non ritorno e che anche per noi calciatori si avvicina il momento di fare i conti con la realtà. Ho come l'idea che l'era delle vacche grasse sia alla fine, se non già finita. La Lazio, come tutte, ha avuto i suoi problemi, aggravati anche da alcuni personaggi che di quei problemi volevano approfittare per mandarci a fondo. Non ci sono riusciti. Ma la Lazio per me non significa soldi». Ah, no? E allora? «Ho buttato un contratto da 900.000 euro per tornare qui. Per tornare sotto la Nord, la curva dove da ragazzino gridavo e che oggi, quando grida per me, mi mette i brividi. La Lazio è un grande amore. Tornare era il mio sogno». Tanto da regalarle un saluto romano in piena regola? «Ancora! - e la voce sorride - Ci han montato tanto chiasso su quella storia. Come su quella di Cannavaro. I politici approfittano di ogni nostra vicenda per far passerelle in tv, parlando di cose che, nella maggior parte dei casi, ignorano. E noi non potremmo parlare o fare politica con le curve? Sono un colossale centro sociale all'aperto, dovrebbero essere viste con meno superficialità. Basta una celtica in curva e si fa un gran rumore, quando si fischia per i morti delle Brigate Rosse o per i carabinieri di Nassirya allora nessuno dice niente». Ma lei indiscutibilmente è di destra. Come altre facce famose di una certa Lazio, Wilson, Martini. «L'ho visto l'altro giorno, Wilson. Mi ci son fatto anche qualche foto insieme. Emozionato come un ragazzino, quelli del '74 sono gli eroi di una Lazio nella quale avrei sognato di giocare». Otto anni in Inghilterra: le manca qualcosa? «Certo non il clima, anche se allenarmi nel clima uggioso non mi pesava. Nel cuore mi rimane tutto quello che ho visto, non solo Londra, ma la Cornovaglia, Nottingham e il senso civico degli inglesi. Un paio di episodi che mi sono successi a Roma mi hanno fato veder

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