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A lezione di cronaca da Buzzati

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Mi torna alla memoria un giorno di una quarantina di anni fa. Al varo di una nave della Marina Militare, a Genova, mi trovai accanto un cronista attempato, che prendeva diligentemente appunti mentre il ministro della Difesa pronunciava il discorso di rito. Ogni tanto si chinava verso di me, perché gli era sfuggita una frase. Era cortese, affabile, con un'aria da gentiluomo. Mi domandai perché il suo giornale l'avesse mandato a seguire un evento di importanza secondaria. Doveva essere un vecchio cronista in disgrazia, pensai. Ci ritrovammo accanto al termine della cerimonia, davanti al tavolone (spartano, come s'addice all'ambiente militare) del buffet. Continuammo a conversare. Lui era curioso, mi fece molte domande, anche personali: per quale giornale lavorassi, e che studi avevo fatto. Si offese perché gli davo del lei, e mi impose il tu. Alla fine - al momento del commiato - mi tese la mano, e si presentò: «Sono Buzzati, del Corriere della sera». Su un foglietto del taccuino mi scrisse anche il suo numero di telefono. Il giorno dopo mi precipitai a leggere il suo pezzo da Genova, un autentico piccolo capolavoro, che ho conservato per anni come un cimelio. Poi si è perso, forse in uno dei tanti traslochi della mia vita. Quel giorno capii che questo è un mestiere nel quale chi è bravo può dimostrarlo sia raccontando lo sbarco sulla Luna, o l'attentato alle Twin Towers, o la morte di un papa, sia soffiando il proprio talento su un piccolo fatto di cronaca. Senza mai sentirsi mortificato se il direttore ti manda a seguire un avvenimento destinato , con un titolo a due colonne. Quando lo conobbi, Buzzati era uno dei pochi scrittori italiani conosciuti in tutto il mondo. "Il deserto dei tartari" era arrivato alla sua settima edizione in Italia ed era stato tradotto in parecchie decine di lingue: lui prendeva appunti, come il ragazzo che gli era capitato accanto, che quel giorno aveva sperato invano di seguire un avvenimento almeno un po' più importante. Mi torna alla memoria (e sono ricordi degli anni immediatamente successivi) l'ultimo periodo in cui Enrico Mattei diresse la Nazione. Ogni giorno faceva la spola in automobile tra Firenze e Roma. Il pomeriggio arrivava a Roma, incontrava qualche uomo politico, parlava al telefono con altri, poi si rifugiava in Sala Stampa, a piazza San Silvestro, e scriveva il "pastone" che il giorno dopo avrebbe occupato un pezzo della prima e tutta la seconda pagina del suo giornale. Scriveva a penna sulla carta continua delle telescriventi. Di tanto in tanto, il capo della redazione romana, gli strappava (aiutandosi con un righello, senza parlare) quel che aveva appena scritto, per darlo al telescriventista che lo trasmetteva a Firenze. Alle undici di sera, Mattei si guardava intorno in cerca di qualcuno che gli facesse compagnia a cena, in una trattoria del centro. Dove raccontava le sue storie fascinose, di quando aveva intervistato Giovanni Giolitti, presidente del Consiglio, prima dell'avvento del fascismo. Preistoria per noi giovani, che non avevamo mai conosciuto De Gasperi, morto una quindicina di anni prima. La mattina dopo ripartiva per Firenze (per presiedere la riunione di redazione), e poi di nuovo a Roma, per scrivere il pastone. Qualche tempo dopo, Mattei si trasferì definitivamente a Roma, come editorialista di questo giornale. Eugenio Marcucci ha raccontato in un libro ("Giornalisti grandi firme", editore Rubbettino, 30 euro), carico di inevitabili nostalgie, 58 giornalisti - direttori, inviati speciali, corrispondenti, cronisti - vissuti fra la fine dell'Ottocento e la seconda metà del Novecento. Impossibile citarli tutti: si va da Luigi Albertini (mitico direttore del Corriere della sera) a Renato Angiolillo (fondatore de Il Tempo), dai due Barzini (padre e figlio) a Giovanni Ansaldo, da Tommaso Besozzi (il cronista della morte di Salvatore Giuliano) a Gianni Brera, da Egisto Corradi (forse il più grande inviato di guerra) a Giulio De

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