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Intellettuali coalizzati per la diversità culturale

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La risposta (come è di prammatica per le domande retoriche) è ovvia, per ambedue i quesiti: certo che no. La cultura - perché di questo si parla - non può essere trattata alla stregua di un qualunque altro prodotto industriale o commerciale. Invece, è questo il rischio che si profila. E in tempi di globalizzazione questo si risolve nell'impossibilità - da parte dei singoli stati - di imporre dazi o difendere i propri prodotti con un qualunque genere di protezionismo. L'attualità della questione nasce dal rifiuto opposto dagli Stati Uniti di firmare una convenzione (approvata da 185 Paesi) che dovrebbe regolare i regimi di difesa delle singole identità culturali nazionali. E il problema è che gli Stati Uniti, da soli, hanno in mano l'80 per cento della produzione culturale mondiale. Si badi bene: della produzione, non del patrimonio. Quanto a quello noi italiani - fra musei, chiese, siti archeologici, meraviglie architettoniche, collezioni museali, manoscritti antichi, e persino spartiti musicali - non siamo secondi a nessuno. Ma "a fare cassa" sono gli Stati Uniti, che non vogliono saperne di rispettare la specificità culturale degli altri Paesi del globo. La questione - piuttosto complessa nei suoi aspetti giuridici - è all'ordine del giorno dell'Unesco, strappata alle organizzazioni internazionale (sempre ancorate alle Nazioni Unite) che si occupano di commerci e di servizi. E proprio all'Unesco si è verificata, nelle scorse settimane, l'impasse di cui si discute. Molti Paesi si sono già dati da fare per difendere le proprie identità culturali dal rischio estinzione. L'Italia ha mosso ieri i primi passi in questa direzione con l'Assemblea Costituente della Coalizione Italiana per la Diversità Culturale, che si è riunita nella Sala Capitolare del Chiostro del Convento di Santa Maria Sopra Minerva, territorio del Senato della Repubblica. Una sede importante, e una platea affollata di volti noti del cinema, della letteratura, della musica. Inutile citarli uno per uno, e anche inopportuno per via di alcune considerazioni che si possono fare riguardo all'iniziativa. Partiamo dagli assenti, allora. Non c'era Roberto Benigni (ultimo Oscar autorale del cinema italiano); non c'era Dario Fo, ultimo Nobel per la letteratura; non c'era Umberto Eco, lo scrittore italiano vivente che ha venduto più copie all'estero. Non c'erano grandi musicisti o grandi direttori d'orchestra. E si respirava più un'aria sindacale (carica di rivendicazioni e risentimenti) che un'atmosfera di preoccupazione. L'ambasciatore italiano presso l'Unesco, Francesco Caruso, ha spiegato quel che è accaduto a Parigi, e le difficili trattative che hanno preceduto la stesura della Convenzione e che tenteranno (nei prossimi mesi, con la spinta anche delle iniziative prese nei singoli Paesi) di convincere il governo di Washington a firmarla. Carlo Lizzani (decano dei registi italiani) ha seminato qualche grano di ottimismo, sostenendo che gli americani si renderanno conto che una concorrenza più agguerrita farà bene ai loro prodotti. Ma l'assemblea si muoveva più nello spirito dell'assalto al Palazzo d'Inverno. L'assessore alla Cultura della Provincia di Roma, Vincenzo Vita, ha lamentato il fatto che - ad ogni finanziaria - il governo Berlusconi opera ulteriori tagli al bilancio dei Beni Culturali. E su questo ha perfettamente ragione. Ma se poi i fondi vengono impiegati (come è accaduto regolarmente negli ultimi decenni) per aiutare un cinema asfittico e privo di idee, e per finanziare film che non arrivano neppure nelle sale (perché gli esercenti si guardano bene dal proiettarli), allora le sovvenzioni servono a poco. Ovvero: si traducono in una specie di cassa integrazione per autori al tramonto (se mai hanno visto la luce) e non in una promozione della cultura italiana. Che avrebbe bisogno di ben altri interventi.

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