di GABRIELE SIMONGINI SENZA dubbio a Pericle Fazzini (1913-1987) sarebbe piaciuto molto esporre le proprie ...
Le sue sculture così piene di movimento potenziale e come agitate dall'impeto del vento (per usare una felice definizione di Ungaretti) si trovano perfettamente a loro agio in mezzo alla natura, tanto più se è una natura in cui è intervenuta la mano sensibile dell'uomo rinascimentale. Così si avverte proprio questa armonia visitando la coinvolgente mostra che la Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio del Lazio ha voluto dedicare a Fazzini nel palazzo e nel giardino di Villa d'Este (fino al 30 ottobre; a cura di Giuseppe Appella), come prima tappa di un futuro ciclo di esposizioni incentrate sui grandi scultori italiani. Pericle Fazzini, giunto a Roma dalla natia Grottammare nel 1929 grazie al poeta Mario Rivosecchi, rimase subito abbagliato dal dinamismo barocco di Bernini e Borromini. Anzi, probabilmente amò soprattutto lo spazio architettonico duramente intagliato e asimmetrico del geniale e inquieto architetto ticinese, espresso in capolavori come San Carlino alle Quattro Fontane o Sant'Ivo alla Sapienza. E nello stesso tempo si portava dietro l'intenso e immediato contatto con la sabbia, le pietre e le onde di Grottammare, tanto da dover dire di aver sempre scolpito "con l'Adriatico addosso". Ecco, Fazzini è riuscito a fare una scultura colma di memorie storiche (dalla statuaria egiziana e orientale a Jacopo della Quercia e Donatello, dall'arte negra alla scomposizione cubista e al dinamismo plastico dei futuristi) ma sempre naturale, come cresciuta dal seme dell'anima per una sua intima necessità interiore. Nella scultura Fazzini identificava il luogo in cui si realizzava la pacificazione di tutte le contraddizioni: «Mi sento - ha scritto l'artista di Grottammare - un insieme di pagano e di cristiano, di erotico e di mistico, un frammento che ha nostalgia delle nuvole, degli uccelli, degli alberi e di tutte le cose che esistono primordialmente pure nella realtà di ogni giorno». Ed ancora: «La vera scultura deve arrivare a creare una forma assoluta, mistica, lontana dalla esistenza "fisica" del modello, una forma che non ha bisogno di "respirare" l'aria». Cresciuto in una famiglia di abili intagliatori ed ebanisti Fazzini aveva nel suo Dna la straordinaria capacità di tirar fuori l'energia specifica di ogni materia (dal legno al bronzo, dal gesso alla terracotta), facendola identificare con le più profonde ragioni espressive del soggetto scelto. La mostra di Tivoli documenta bene questa vocazione, presentando 77 pregevoli sculture, dal gesso del 1928 con il ritratto del poeta Rivosecchi al bozzetto per il monumento a San Francesco del 1981, mai realizzato, oltre a 44 disegni che danno immagine al suo intero percorso creativo. Fra le opere più significative, in cui prende corpo una classicità nuova, irrequieta e dinamica, spiccano «Donna nella tempesta» (1932), «Figura che cammina» e «Ritratto di Valeria» (1933), che diventa una sorta di misteriosa divinità orientale dalle braccia che cingono il proprio busto come un ipnotico serpente, i due ritratti di Ungaretti del 1936, il «Ragazzo con i gabbiani» (1940-44), che sembra miracolosamente prendere il volo insieme agli uccelli, l'acrobatico «Tuffatore» del '44, la «Ginnasta» contorsionista del '46, la travolgente «Danzatrice» (1956), fino al bozzetto del «Cristo risorto» (1970-75) della Sala Nervi in Vaticano. Guardando queste opere e dando magari un'occhiata agli zampilli delle fontane di Villa d'Este ci si accorge che Fazzini è riuscito spesso a portare le onde e il vento nei corpi da lui scolpiti e magnificamente disarticolati nello spazio per creare una nuova natura.