Il fuoco tecnologico del XXI secolo
Spunta sul palco dello Stadio Re Baldovino, che nessuno dopo la ristrutturazione se l'è sentita di chiamare ancora Heysel. Davanti a sessantamila privilegiati, è il concerto che apre il segmento estivo del tour degli U2, dopo le notti d'inverno nei palasport americani. A luglio saranno in Italia: il 20 e 21a Milano e il 23 all'Olimpico di Roma. Quando cala la luce del tramonto e una voce disincarnata ripete ossessivamente «everyone, everyone, everyone», è già trionfo annunciato. Bono, Larry ,Edge, Adam compaiono in una scena più «schiacciata» che negli Usa, dove al centro domina un sipario di luci — sono più di ottomila, e per accenderle occorre un dispendio energetico sufficiente a illuminare un piccolo paese — che diventa un megaschermo, un maxicinema, un'illusione iperrealista. Non è solo questione di ingigantire l'immagine di quattro musicisti, come avviene in ogni show che si rispetti: qui si tratta di mescolare, grazie a quei fantasmi di luce, autoironia, fede, partecipazione. Tecnologia calda per una buona causa. Il pubblico, naturalmente, non si fa pregare: e d'altra parte è impossibile resistere al puro contagio rock di «Vertigo» (eseguita due volte, in apertura e chiusura, e per un attimo è sembrato che lo show potesse ricominciare), «Elevation» o «Beautiful Day». O alla nostalgia dei vent'anni in «Electric Co.» (con citazione per palati fini di «I Can See For Miles», targata Who). Come sempre, la sezione ritmica composta da Larry Mullen e Adam Clayton sembra un tir lanciato in discesa senza impulso di frenare, e The Edge assicura — da 25 anni — la gestione dello chassis armonico, con il suo stile chitarristico inconfondibilmente votato a un gioco di echi, evocazioni, rimandi, da cui nascono impalcature che paiono fragili, e invece si rivelano d'acciaio. Ecco l'incantevole «Miracle Drug», la speranza che i medici possano salvare la parte meno attrezzata del mondo: sul sipario luminoso scorre il tracciato di un elettrocardiogramma, che diventa piatto proprio mentre parte l'omaggio a Bob Hewson, il padre di Bono scomparso due anni fa, nella struggente «Sometimes You Can't Make It On Your Own». Poco dopo la metà del concerto, arriva il break politico, con una sequenza di capolavori pacifisti scritti tra nervi e sangue: «Love & Peace», e ci vedi l'Iraq, «Sunday Bloody Sunday», il dolore d'Irlanda, la piaga del terrorismo dentro casa, e poi «Bullet The Blue Sky», ed ecco un bombardiere volare su un cielo esasperato. Bono le canta con la testa fasciata da una bandana bianca con su la scritta «coexist», nata dalla successione di Mezzaluna, Stella di David e Croce: è l'appello all'unità tra razze e religioni, e il candore di quella fascia contiene tutti i colori del dissidio universale. «Runnin' To Stand Still», la corsa verso l'incubo, e sullo schermo scorre la Dichiarazione dei Diritti Universali dell'Uomo. Poi torna il Sogno: «Pride», il classico per Martin Luther King, e l'Africa diseredata di «Where The Streets Have No Name»: giù le bandiere del continente nero dal sipario di luce, e l'annuncio del Live Eight a ridosso del G8. Quando arriva il momento di «One» tutto lo stadio si accende nel chiarore dei cellulari: il fuoco freddo del Ventunesimo Secolo, e nello schermo compaiono poi i nomi di quanti, qui e subito, hanno aderito alle campagne di Bono contro la povertà globale. I bis, dopo due ore di spettacolo, offrono la sensuale ebbrezza di un rituale che si spegne senza perdere la forza: «Zoo Station», «The Fly», «Mysterious Ways», (con i messaggi sparati a mo' di spot sul megascreen e i flirt con la telecamera come ai tempi dello Zoo Tv tour) fino al commiato acustico di «Yahweh» e alla nuova «Vertigo». Fino all'ultimo palpito di una notte illuminata. Ste. Man.