Colajanni, quel comunista che credeva nella libertà
All'interno del Pci animò la corrente «migliorista» che fu spazzata via dalla «macchina da guerra» di Occhetto
Mannino ed il vostro «chroniqueur» hanno avuto lunghe esperienze di vita americana e scorribandato in tutto il mondo. I 79 anni di vita di Napoleone Colajanni, appena tornato al profumo della zagara, hanno avuto tre punti di riferimento geografico: la Catania dove è nato e dove si è laureato in ingegneria (veniva chiamato impropriamente, ma freudianamente, economista in quanto gli ingegneri sono sovente i padri dell'economia), la Roma parlamentare e la Torino operaia dove è stato eletto senatore per due legislature, dopo essere stato parlamentare, sempre per due legislature, di collegi siciliani. Portava, come era consueto della prima parte del secolo, il nome del nonno: politico di grande rilievo in età giolittiana, il quale a soli 13 anni aveva tentato di diventare garibaldino ed era stato protagonista di battaglie importanti (inchiesta parlamentare sull'Etna, affare della Banca Romana, istituzione degli uffici del lavoro). Era un eredità pesante. La avrebbe portata con la fierezza coniugata con umiltà dei veri aristocratici siciliani. La sua battaglia fu tutta all'interno del socialismo, in particolare del Partito Comunista Italiano (Pci) che, nella sua interpretazione, era, nella Sicilia del dopoguerra e degli anni della ricostruzione, il soggetto politiche più adatto a portare, al tempo stesso, ad una migliore crescita economica ed ad una migliore distribuzione dei suoi frutti. Era un «migliorista» (aggettivo che denominò un'intera squadra), convinto che la società italiana avesse nel suo Dna i germi per «migliorarsi», senza scimmiottare le rivoluzioni che avevano portato, altrove, il «socialismo reale» coniugandolo con la riduzione delle libertà politiche (che riteneva essenziali anche e soprattutto in un contesto socialista). Aveva assunto ruoli politici di spessore già da giovane: componente del comitato centrale del Pci dal 1960 al 1968, in Parlamento dal 1968 alla fine dell'esperienza «migliorista» travolta dalla tutt'altro che gioiosa macchina da guerra guidata (all'interno del Pci) da Achille Occhetto. Con un importante saggio del 1987 «Comunisti al bivio» aveva preconizzato le lacerazioni all'interno della sinistra italiana mentre si svolgevano le vicende che avrebbero portato allo smantellamento del muro di Berlino. Non gli creò amici tra i «giovani leoni» che pur coscienti del fallimento del comunismo volevano mantenere ed anzi ampliare la sfera di potere e la posizione di rendita che si erano conquistati; da vero aristocratico siciliano, per Colajanni - avido rilettore di De Roberto - il potere e la rendita non avevano significato se non in quanto espressione di tensione ideale. Al di fuori del Parlamento, restò nella sinistra, mantenendo un ruolo critico ed indirizzando le sue analisi sempre più su posizioni liberali. Tra i fondatori della Casa Editrice che pubblica «Le Riforme del Socialismo», era diventato uno dei rubricisti più sferzanti e più seguiti da «Il Sole-24 Ore».